Referendum giustizia e amministrative, due belle scosse di assestamento al sistema politico italiano

Continua lo sciame sismico che interessa il nostro sistema politico. La giornata del 12 giugno ne ha segnate in contemporanea due, la cui portata sarà da valutare nelle prossime settimane e mesi. Può darsi che le crepe ad un edificio che rimane in piedi siano sanabili, ma può anche darsi che, più o meno lentamente, lo portino al crollo.

Il primo colpo è venuto dall’esito della prova referendaria ampiamente disertata dagli elettori. Alla favola per cui larga parte di chi non si è recato alle urne semplicemente voleva dare un voto negativo (con poca fatica) francamente non crediamo. La gente non si è fatta coinvolgere in una impresa che era difficilmente comprensibile e la cui soluzione pensava dovesse essere trovata a livello parlamentare (il che non si riesce a fare, ma questo rafforza la sfiducia nel funzionamento del nostro sistema). La conseguenza, purtroppo, è che le corporazioni che, per ragioni diverse, non vogliono la riforma del sistema giudiziario, si buttano già a boicottare quel primo passo che è la riforma Cartabia ancora in discussione al Senato. Speriamo che il vincolo europeo non le faccia vincere.

Il secondo colpo è venuto dalle urne delle amministrative. Per quanto questo tipo di “test” abbia sempre un valore relativo, delle indicazioni, almeno a livello di suggestioni, sono arrivate. La più scontata è che apparentemente siamo ancora agli ultimi sussulti di un sistema “bipolare”, in realtà esso è in dissoluzione. Innanzitutto dove le due classiche coalizioni hanno vinto al primo turno o hanno ottenuto risultati rilevanti in contesti significativi è accaduto grazie a candidati sindaco che non vengono dalle filiere tradizionali dei grandi partiti, essendo piuttosto espressione di persone che nella vita avevano fatto anche qualcosa di diverso dalla “politica”.

Poi c’è stato il pessimo risultato della Lega e il flop totale dei Cinque Stelle. Il salvinismo esce a dir poco ridimensionato e la Meloni può compiacersi di un ottimo risultato. Conte può arrampicarsi sugli specchi fin che vuole cercando di sostenere che nelle amministrative il suo movimento va sempre male (mai così male), ma dovrebbe ammettere che M5S sta svanendo perché è tramontato il fascino della sua demagogia primordiale, mentre non è riuscito a mostrare capacità di convertirsi in una forza con una classe dirigente credibile (il richiamo di Conte in conferenza stampa alla riforma della giustizia di Bonafede è stato patetico).

In parallelo c’è stato un incremento di presenza del “civismo” e anche del centrismo di Calenda (meno di IV). Non ancora sufficiente per far parlare di un terzo polo, ma comunque segnale della disponibilità di una offerta politica che possa collocarsi, almeno virtualmente, fuori delle chiusure corporative (spesso più che miopi) dei gruppi dirigenti dei grandi partiti.

Alla domanda se tutto questo preluda ad una crisi del governo Draghi quasi tutti gli osservatori rispondono negativamente. Sarà così se non avvengono fatti traumatici che annullino la salda volontà di tutti i parlamentari di non andare a casa perdendo se non la pensione (per quella basta arrivare a settembre) un buon numero di mesi di stipendio. Una ragione solida per una classe politica che sa bene che per una sua larga quota non ci sarà speranza di ritornare su quei banchi la prossima legislatura.

Tuttavia ormai tutti i politici lavorano con l’incubo delle elezioni nazionali e nella speranza di guadagnare voti la maggior parte si butta a promettere “ristori” da elargire a destra e a manca. La paura di una crisi economica incombente (anche se, per la verità, i dati economici interni al momento sono abbastanza buoni) favorisce le promesse a vanvera: scostamenti di bilancio, sussidi vari, blocco di qualsiasi forma di controllo fiscale, innalzamento dei salari, e avanti di questo passo. Ma cosa accadrà quando si dovranno fare i conti con i sospetti a livello internazionale sulla nostra tenuta (quel che sta facendo crescere lo spread) e la stesura della legge di bilancio a fine anno?

Finora si è andati avanti con funambolismi verbali per cercare di accontentare quasi tutti (un esempio lo avremo nella risoluzione parlamentare del 21 giugno), ma quando si dovranno fare i conti coi bilanci non ci si riuscirà più. A quel punto i partiti dovranno lasciar perdere le fumisterie sui campi larghi e stretti, sulle alternative di destra e sinistra, sui vari tipi di appello al popolo e dovranno fissare di fronte alla comunità internazionale le linee di governo del nostro futuro.
Vedremo se questo riuscirà a riempire le crepe che si sono aperte in questa settimana o se le allargherà al punto da mettere in crisi la stabilità dell’edificio.

 

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