Erdogan, il ras turco è il jolly nel conflitto

Ma quale ruolo sta giocando Recep Tayyip Erdogan nei giorni bui della più grave crisi europea dal secondo dopoguerra ad oggi? Che il presidente turco emerga come un attore di primo piano è indubitabile. Non solo nel conflitto russo-ucraino, ma nell’intero scacchiere attorno al Mar Nero e al Mediterraneo.

In questi giorni i suoi sforzi diplomatici sembrano concentrarsi sulla cosiddetta guerra del grano che divide ferocemente Kyiv da Mosca. Come è noto, è necessario trovare una soluzione che rimuova il blocco navale russo dal porto di Odessa, l’unico ancora rimasto in mano ucraina. Solo con questa garanzia sarà possibile per l’Ucraina svuotare i circa 20 milioni di tonnellate dai suoi silos per distribuirli in Medio Oriente e nell’Africa attraverso il Mar Nero e il Bosforo.

A rigor di logica un tale compito dovrebbe essere affidato all’Onu, ma purtroppo gli eventi di questi mesi hanno dimostrato l’irrilevanza del massimo organismo mondiale per la semplice ragione che pochi Paesi, fra cui la Russia, hanno diritto di veto su ogni sua decisione. In questo vuoto di potere si è infilato con la consueta rapidità il presidente turco. Che ha diverse ragioni per proporsi come maggiore “facilitatore” in questo frangente.

Innanzitutto Erdogan, pur essendo membro della Nato, ha adottato una politica di equilibrio fra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky: ha condannato l’invasione russa, ma ha rifiutato di adottare le sanzioni dei suoi partner occidentali contro Mosca. Dall’altro lato ha fornito all’Ucraina i micidiali droni Bayraktar, che hanno contribuito a fare fallire il tentativo russo di conquistare Kyiv nei primi giorni di guerra.

La seconda ragione è che, in virtù della sua posizione strategica, domina il passaggio del Bosforo ed in base alla Convenzione di Montreaux esercita il diritto di interdire gli stretti alle navi militari di Paesi in guerra, regola che vale anche per i russi. Insomma senza il beneplacito del “sultano” di Ankara la situazione non si risolve.

Ma se Erdogan si limitasse solo a questo episodio, per quanto importante, non ci sarebbero le preoccupazioni che oggi si manifestano intorno alle sue vere intenzioni.

Come abbiamo visto nella recente riunione Nato, il presidente turco si è preso l’intera scena. Ha accettato lo “storico” allargamento dell’Alleanza a Finlandia e Svezia solo a patto che gli vengano restituiti alcuni rifugiati curdi o dell’opposizione interna fuggiti in quei due Paesi. Questo è il suo ricatto per concedere il proprio assenso alla loro adesione.

Non contento, ha addirittura obbligato Joe Biden a rimangiarsi la decisione di non vendere 40 caccia F16, bloccati dopo la decisione di Ankara, membro della Nato, di rifornirsi di sistemi antimissile S 400 addirittura dal principale nemico della stessa, Vladimir Putin.

Non che Erdogan sia particolarmente tenero con Putin, anzi nei mesi passati lo ha contrastato in Azerbaigian in lotta con l’Armenia alleata di Mosca. In Siria ha conteso ai russi, sostenitori del dittatore Assad, l’area di confine di quel Paese per cacciarne i curdi siriani ed ora sembra volersi accordare con Putin per attaccare nuovamente quelle disgraziate popolazioni che tanto ci hanno aiutato a battere l’Isis. E ancora, in Libia il “sultano” sostiene il governo di Tripoli, mentre Mosca appoggia il generale Haftar in Cirenaica.

In questi giorni poi Erdogan ha risollevato l’eterna contesa con la Grecia minacciando interventi non meglio precisati se non verranno demilitarizzate le isole greche accanto alle coste turche.

Insomma, un’azione a tutto campo che si estende dalla guerra russo-ucraina fino alle coste dell’Africa.

Questo gioco ha un paio di ragioni interne. La prima è che l’economia turca va malissimo. L’inflazione ha superato il 70% e la lira turca ha dimezzato il suo valore rispetto al dollaro. Ma Erdogan non vuole aumentare i tassi di interesse per frenare l’inflazione: si è sostituito come “esperto” in materia monetaria alla sua banca centrale. Oggi è quindi costretto a chiedere aiuti economici anche a nemici giurati come l’Arabia Saudita.

Ma la ragione di fondo sono le elezioni presidenziali e parlamentari del prossimo anno in cui deve contenere il disagio economico con la tradizionale leva del nazionalismo. Di qui la ripresa della lotta contro i curdi e la riapertura del contenzioso con la Grecia. Nazionalismo che verrà celebrato sempre nel 2023, anno del centesimo anniversario della nascita della Turchia moderna. In realtà queste mosse internazionali a 360 gradi, rivelano l’obiettivo vero del “sultano”, che assomiglia molto a quello di Putin: cioè rinverdire i fasti dell’impero ottomano. Peccato che tutto ciò accada, in barba ai diritti umani e alle libertà, senza che nessuna delle nostre democrazie riesca a contenere queste antistoriche ambizioni. Anzi, si lascia mano libera al “sultano” di muoversi a piacimento.

Lo stesso nostro premier Mario Draghi, che aveva definito a suo tempo Erdogan un “dittatore”, è costretto ad andare ad Ankara alla corte del ras per parlare di grano ma anche di energia, dove la Turchia ha molto da offrire e da pretendere.

La guerra ha quindi offerto ad Erdogan quello che sperava: diventare un jolly indispensabile in questa crisi e al contempo ridare al suo Paese lo status di grande potenza.

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