La vigilanza che nasce dalla fede

Domenica XIX del tempo ordinario C. Illustrazione © Fabio Vettori

7 agosto 2022 ‑ Domenica XIX del tempo ordinario C

Sap 18,3.6-9; Eb 11,1-2.8; Lc 12,32-48

«Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito». Lc 12,35-36

 

Il minimo comun denominatore delle letture di questa domenica è dato dal simbolo del vegliare. Emerge un triplice significato di questo verbo: rimanere in attesa, tenersi pronti, custodire con senso di responsabilità.

Vegliare vuol dire anzitutto rimanere in attesa di qualcosa o di qualcuno, è l’esperienza del popolo d’Israele che attende da Dio la propria liberazione (prima lettura), è l’esperienza di Abramo, Sara e di tutti i patriarchi dell’Antico Testamento citati nella seconda lettura, che «attendono la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (cfr Eb 11,10), è la mentalità che i discepoli devono acquisire e fare propria secondo il brano del vangelo. Tutti noi conosciamo questo modo di vegliare e abbiamo fatto l’esperienza di attendere qualcuno/a. Quanto più amiamo la persona attesa, tanto più intensa diventa anche la nostra capacità di vegliare.

Vegliare vuol dire anche accogliere l’invito di Gesù a tenersi pronti: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese» (Lc 12,35). Ciò significa mantenere alta la tensione e lucida l’attenzione, mantenere costante l’impegno e vigile la coscienza, ma anche evitare una mentalità da arrivati, da assicurati e da irresponsabili ed incoscienti: «tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (cfr Lc 12,40). Anche di questo vegliare abbiamo esperienza: tutte le volte che siamo rimasti in allerta per un pericolo imminente, quando ci siamo sentiti minacciati da qualcosa o da qualcuno, ma anche tutte le volte che occorreva cogliere al volo un’occasione.

Il tenersi pronti del discepolo di Gesù è poi anche custodire, prendersi cura, assumersi delle responsabilità nei confronti del mondo e dell’umanità: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi» (cfr Lc 12,42-44). Per tutto il tempo in cui il Cristo si sottrae al nostro sguardo (dalla sua ascensione al cielo fino al suo ritorno finale) egli ha posto in mano nostra ogni cosa. Se gestiremo le nostre responsabilità con lo stile di Gesù, mettendoci a servizio di ogni fratello e sorella, fino al dono della nostra vita, lo stesso Gesù, al suo ritorno, ci investirà di responsabilità ancora maggiori; se le gestiremo con uno stile di dominio e di potere, di violenza e di sopruso, allora dovremo renderne conto: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» (cfr Lc 12,48).

La vigilanza infine nasce da una mentalità di fede e educa a vivere nella prospettiva della fede. La seconda lettura ci offre quello che potremmo chiamare l’inno alla fede. Il brano della lettera agli Ebrei è infatti scandito da un ritornello: «per fede». Tutti i grandi personaggi dell’Antico Testamento hanno vissuto la loro vita sostenuti dalla fiducia nel Dio fedele, che mantiene le sue promesse e le porta a compimento sebbene i suoi tempi non siano i nostri tempi.

Se il nostro modo di vivere da cristiani risulta così spesso mediocre, fiacco e demotivato, forse ciò è dovuto anche al fatto che non siamo più capaci di vegliare, di attendere e desiderare il ritorno di Cristo con una fede sufficientemente forte e radicale ma anche attenta, piena di cura e responsabile.

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