Il governo Meloni alla prova dell’Europa

Roma, 9 gennaio 2023: incontro tra Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen a Palazzo Chigi. Foto: Presidenza del Consiglio dei ministri

L’incontro di Giorgia Meloni con la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen non ha portato risultati clamorosi. Era impossibile che accadesse, per la semplice ragione che von der Leyen non ha il potere di decidere sui dossier che le sono stati presentati (revisione del PNRR, immigrazione, ecc.). La Commissione ha compiti di istruttoria dei problemi e decisionali per quel che ottiene come mandato dal Consiglio Europeo che è formato dai vertici di tutti gli stati aderenti. In più agisce come soggetto collettivo senza che chi presiede abbia il potere di imporsi sugli altri membri.

Ciò non significa che il rapporto fra la nostra premier e la von der Leyen sia da sottovalutare. Il mix dei poteri nella UE è complicato ed è con questo che si devono fare i conti. Se volessimo schematizzare tagliando con l’accetta diremmo che i poteri spettano per 2/4 al Consiglio Europeo, per ¼ alla Commissione con la sua potente componente tecnocratica e per un ultimo quarto al parlamento europeo come luogo di rappresentanza, un po’ pallida in verità, degli equilibri politici che vigono dentro l’Unione. Se Meloni vuole portare a casa dei buoni risultati è con questa complessità che deve fare i conti.

Sul versante del quarto politico la premier sembra puntare al fatto che sta scricchiolando il tradizionale asse fra il gruppo dei popolari e quello dei socialisti, coi secondi che sono in crisi non solo per il fattaccio del Qatargate (che alla fine coinvolge solo una quota di profittatori politici), ma per il generale indebolimento delle sinistre nei vari paesi dell’Unione. Per questo potrebbe aprirsi una prospettiva di accordo, dopo le elezioni del 2024, ma son cose che vanno preparate per tempo, fra i popolari, di cui fa parte la von der Leyen, e i conservatori europei che hanno come presidente la Meloni. È tutto da vedere, perché anche i popolari non è che navighino in ottime acque, ma è una prospettiva possibile.

Il rapporto con la tecnocrazia di Bruxelles, con cui alla fine la Commissione è pesantemente connessa, può a certe condizioni non essere ostico per il nostro paese. Con quegli ambienti sia il ministro degli Esteri Taiani, che ha avuto a lungo ruoli importanti nella UE, sia il ministro per gli affari europei e per il PNRR Fitto hanno molti e proficui rapporti. Aiutare l’Italia a raggiungere il successo nella gestione dei fondi ottenuti dal Recovery è un obiettivo che i tecnocrati europei condividono: non per buon cuore, ma perché è nel loro interesse dimostrare che conviene andare avanti sulla via del finanziamento comune a fronte delle difficoltà che insorgono per le congiunture storiche. Ieri quelle della pandemia, oggi quelle della guerra in Ucraina, ma domani tutto ciò che quegli sconvolgimenti si lasceranno dietro. Raccogliere fondi, distribuirli e controllarne l’uso significa potere per la Commissione e per i suoi uffici.

Proprio per consentire il successo del PNRR a Bruxelles non si è contrari a tenere conto di cambiamenti oggettivi intervenuti fra il tempo in cui furono predisposti i piani e oggi: se il costo dei materiali è quasi triplicato, se c’è una crisi dei rifornimenti energetici, se i costi del sostegno bellico all’Ucraina si fanno sentire non c’è motivo di negare adeguamenti. Naturalmente Meloni deve stare attenta a non urtare i tecnocrati europei con la solita lagna all’italiana che vuole approfittare di quelle difficoltà per rivedere obblighi sgraditi alle varie lobby interne con cui il governo attuale ha debiti elettorali: vedi, tanto per dire, la melina sull’introduzione delle normative sulla concorrenza.

Poi c’è il problema della presenza italiana nel Consiglio Europeo. Quello non è un ambiente amico a prescindere e la nostra premier non ha né la statura né l’esperienza e competenza di Draghi per imporsi. Se non vogliamo fare della retorica a buon mercato, dobbiamo constatare che non è esattamente la solidarietà europea il maggior motore dell’azione del Consiglio, quanto piuttosto il ritorno ad una reciproca diffidenza nel timore da parte di ciascuno degli stati membri di veder diminuire i propri spazi e poteri a favore di altri. L’Italia, che grazie alla consistente quota di fondi ottenuta col Recovery ha un bel vantaggio nel confrontarsi con le difficoltà della ripresa, non è sempre guardata di buon occhio in quei consessi.

Dunque Meloni deve stare attenta a non offrire argomenti ai nostri concorrenti con il proporre intemerate ideologiche senza costrutto e con il favorire certe demagogie che albergano tanto nelle fila del suo partito quanto in quelle dei suoi alleati. In questa operazione di contenimento non può contare sulla ragionevolezza che non c’è nelle opposizioni convinte che sia una grande idea supportare l’opera degli altri nel ridimensionamento del nostro paese.

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