Smascheriamo la cultura di morte

Anche se non avrà più cerimonie pubbliche, la strage del Cermis di 25 anni fa deve rimanere nella memoria collettiva come condanna di un atteggiamento d’irresponsabilità verso il valore di ogni persona, che ci viene richiamato ai primi di febbraio – stridente coincidenza – dalla Giornata nazionale per la Vita dedicata alla “cultura di morte”.

È davvero una cultura mortifera quella che quel giorno ha spinto due piloti americani a provare una “bravata” omicida ispirata proprio dal “linguaggio delle armi”. Hanno voluto guidare ancora una volta il loro Prowler (un jet dal nome che significa “predatore”) sotto i fili della funivia ad una quota bassissima, causando la caduta della cabina e la morte di 20 innocenti, fra i quali il manovratore di Masi di Cavalese Marcello Vanzo.

Come rileva nella sua testimonianza l’allora parroco di Cavalese don Renzo Caserotti, non va persa la memoria di una catena di irresponsabilità che è rimasta impunita al processo militare celebrato negli Stati Uniti.

“Smascherare la cultura di morte” può significare anche questo, “bollare” gli attentati alla vita – sia quella nascente che quella in decadimento – con il loro nome preciso. Denunciarne la gravità e le conseguenze senza fine per prevenirne, almeno per il futuro, le cause. Che poi sono sempre false ragioni riconducibili all’interesse economico e al dominio personale, favoriti da una tacita legittimazione culturale secondo la quale “la vita è mia e ne faccio quello che voglio”. Oppure, con un variante altrettanto letale: “posso decidere io quando la vita degli altri non è degna di essere vissuta”.

Il messaggio per la Giornata apre gli occhi su situazioni finora poco illuminate – come le violenze domestiche e i suicidi giovanili – e invita ad una riflessione nuova, più approfondita, sulle potenzialità della tecnica medica rispetto al mistero del nascere e del morire: “Il turbamento di molti dinanzi alla situazione in cui tante persone e famiglie hanno vissuto la malattia e la morte in tempo di Covid – rilevano i Vescovi con un opportuno riferimento alla pandemia – ha mostrato come un approccio meramente funzionale a tali dimensioni dell’esistenza risulti del tutto insufficiente”.

Quando poi incoraggiano “azioni concrete a difesa della vita” pensano alle accoglienze dei migranti in fuga dalle guerre o alla condivisione delle giornate con quanti sono afflitti dalla solitudine.

Non basta una Giornata annuale, ormai il calendario ne propone due o tre alla settimana. Educare al valore intangibile di ogni persona – vicina o lontana, sotto i bombardamenti o dentro un ambiente di sofferenza – dovrebbe essere l’obiettivo anche di una lezione scolastica, di un’iniziativa politica mirata ai bisogni nascosti, di qualche chiacchierata al tavolo di casa dove i genitori si lasciano coinvolgere nelle sacrosante domande dei figli: ma perché questa vita merita di essere protetta, anzi donata?

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