Una destinazione sociale al convento dei Cappuccini

Lo spunto

”È a tutti evidente che le strutture conventuali oggi sono economicamente molto costose e che si deve pensare a come utilizzarle al meglio per l’aiuto alle persone indigenti. In assenza di informazioni certe sulla destinazione futura dei nostri conventi (parlo di tutti i conventi e non solo di quello di Trento), mi preme sottolineare che intendo affrontare questo tema nei suoi contenuti e risvolti psicologici, ma anche nella prospettiva delle eventuali ricadute sulla popolazione in genere”.
(da un’intervista di padre Erminio Gius ad Alberto Folgheraiter pubblicata qualche settimana fa su “il T quotidiano”)

L’impegnativo restauro della Cattedrale di Trento ha visto per la sua inaugurazione il 10 dicembre scorso una grande presenza civile, non solo religiosa, a ribadire il significato che il Duomo (accanto, ma distinto dal Palazzo Pretorio), ha sempre assunto nella storia tridentina, dopo che il vescovo Vanga ne pose la prima pietra nel 1215. Il restauro non è stato solo un’operazione artistica, un “remake” estetico, ma un riappropriarsi da parte della comunità di un pezzo della propria storia, e al tempo stesso, quasi un’ipoteca sul futuro: “Una porta aperta alla speranza”, ha commentato l’arcivescovo Tisi.

Perché il Duomo va oltre le appartenenze di fede. Non è tanto il luogo dove siede il vescovo e si tengono celebrazioni solenni, ma la stratificazione delle esperienze umane che sono cresciute nei secoli sull’intera società trentina, il sedimento di ideali e volontà, il simbolo di una comunità che ha saputo unirsi attorno ad energie costruttive e che da queste sa trarre ispirazione per affrontare nuove sfide.

Ma se lo scorso anno si è concluso con questa volontà di speranza quello nuovo si apre con problemi che non sembrano presentare altrettanta determinazione. Saprà infatti il Trentino, che in anni più poveri ha saputo stringersi in un patto sociale, oltre che costruttivo, attorno al Duomo, rinnovarlo sulle emergenze incombenti, dovute anche all’invecchiamento della popolazione, che stanno portando alla frantumazione di un patrimonio secolare di strutture, di presenze territoriali e pastorali?

Rientra in questa prospettiva la scongiurabile alienazione del complesso dei Cappuccini alla Cervara, sulla quale è attesa la scelta definitiva del Capitolo provinciale che ora comprende tutto il territorio nordestino. Svolge ogni sera ancora il suo prezioso servizio la Mensa per i poveri con tanti volontari, ma i “frati con la barba” si trovano a fare i conti da qualche anno con una forte crisi di vocazioni, anche se comprendono nel loro ordine non solo sacerdoti “consacrati”, ma “fratelli laici” e “terziari” che potrebbero portare nuove testimonianze.

Tutti sanno che il convento ha un altissimo valore sul mercato, ma ci chiediamo se deve proprio finire così a Trento la storia dei Cappuccini, venuti in città nel 1599? Tanti di noi ricordano gli umili “frati della cerca” come fra Francesco con la sua bisaccia, fedele ad una “pastorale di strada” dove la raccolta del pane era soprattutto un pretesto per consolare, incoraggiare, dire insieme una preghiera. In secoli poveri la comunità trentina ha saputo costruire e mantenere il Duomo; in questi anni ricchi invece sarebbe paradossale non riuscire a salvare dalla vendita (che finisce sempre per essere una svendita di valori) un complesso come quello della Cervara, che è strategico per la sua funzione sociale prima ancora che per la sua storia spirituale.

Sarebbe grave per due ulteriori considerazioni: la prima è che in Trentino la liquidità non manca, visto che i risparmi privati e i profitti delle banche sono molto alti e la stessa Provincia affastella progetti su progetti (fra l’altro non tutti essenziali, molti elettorali). La seconda considerazione è che una comunità non può crescere civilmente e politicamente (l’autonomia?) se non viene accompagnata da un investimento di spiritualità e di solidarietà. Ecco perchè è un dovere “riconvertire” in questa direzione il convento, evitando che finisca nelle mani dei privati.

È una sfida non solo per la Chiesa. Si tratta di rinnovare un patto comune, anche laico, attorno alla destinazione del convento.

Le ipotesi alternative possono essere molte. Una Fondazione? La partecipazione dei cittadini con quote e volontariato non mancherebbe. O l’intervento di qualche istituto cooperativo, sociale o di credito che potrebbe anche patrimonializzarsi? Sono vie da esplorare anche perché potrebbero essere accompagnate da utilizzi innovativi del complesso conventuale che gode fra l’altro di una biblioteca preziosa e di un vasto orto che potrebbe fornire anche occasioni di lavoro o di ergoterapia.

Riflettendo sull’invecchiamento della città, mi permetto una proposta (fra le molte possibili, alle quali probabilmente si sta già pensando) rivolta alla popolazione anziana: non tanto una struttura socioassistenziale, ma una realtà alternativa, una sorta di “studentato per anziani”, destinata a quanti sono in parte ancora autosufficienti e devono fare i conti con una carenza di strutture adeguate. Teniamo conto che l’”esperimento” di assegnare agli anziani un appartamento pubblico (come a suo tempo ha fatto l’Itea a Madonna Bianca) s’è dimostrato fallimentare, perché finisce per moltiplicare le solitudini invece di ridurle. In una struttura organizzata come “studentato” le cose sarebbero diverse: ogni persona anziana potrebbe avere il suo spazio personale, la sua “privacy” con servizi, incontri e sostegni comuni. E nell’orto potrebbe esercitare una sana attività fisica. Non vedrei tutto gratuitamente (anche gli studenti pagano gli appartamenti e i posti letto all’università).

É questa solo una proposta per intraprendere una strada nuova, alla quale anche la Chiesa può guardare dentro la cornice di un nuovo patto civile, orientato a quella rivoluzione del vivere che l’invecchiamento della popolazione ci presenta.

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Buongiorno, sono Alda Silvestrin e sono d’accordo con Franco De Battaglia per lo “Lo studentato per anziani”. E’ un’idea bellissima. Luoghi comuni come la biblioteca e sala pranzo per non sentirsi sempre soli. Orto da coltivare per chi è in grado di farlo. Io ho 74 anni e mi piacerebbe, pagando come fanno gli studenti, provare a stare assieme e nello stesso tempo anche da soli. Auguro alla Cervara questa soluzione. Senza però, stravolgimenti architettonici: è bella così con la sua mensa per i poveri. Alda

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