La partita europea dell’Italia

Giorgia Meloni. Foto Presidenza del Consiglio dei ministri

Giorgia Meloni va alla riunione del Consiglio Europeo in un contesto più che complicato. Si sommano i problemi sulla guerra in Ucraina con la situazione della finanza internazionale dopo la crisi del Credit Suisse e gli allarmi per le reti di medie banche statunitensi. A questo si aggiunge la tirata d’orecchi del commissario europeo Gentiloni che ha buttato lì che l’Italia pensa più al ponte di Messina che all’implementazione del PNRR.

Certo, sullo sfondo c’è l’eterna questione della gestione dei flussi migratori, tema su cui la UE promette di intervenire senza però specificare bene come, mentre il governo pensa, con poco realismo, di usare il nostro ritardo nella ratifica del MES come uno strumento di pressione (così salva anche la faccia alle forze che stupidamente sino ad ora hanno avversato quella misura).

Una situazione, come si vede, molto mossa che Meloni deve affrontare con una situazione interna poco coesa, perché tutte le forze in campo, in maggioranza e all’opposizione, non riescono a spogliarsi dall’abitudine di sventolare ciascuna le proprie bandierine, le quali peraltro riguardano per lo più faccende di immagine e non di sostanza.

La situazione internazionale è preoccupante. La visita del presidente cinese a Mosca sta rinsaldando un rapporto che ha per obiettivo l’indebolimento dell’asse euro-atlantico a favore di un rafforzamento di quello “asiatico”. Putin è un capo nella palude per cui deve piegarsi alla strategia di Pechino, pur illudendosi di stare su un piano di parità, ma in questo momento deve per forza di cose cercare di uscire dal tunnel di una guerra che gli costa più di quel che possa rendergli. Sul fronte opposto gli USA non possono certo cedere al disegno cinese, che è di lungo periodo e di lunga lena. L’Europa è gioco forza obbligata a seguire questa strategia di contrapposizione, se non vuole diventare preda delle ambizioni che puntano alla sua dissoluzione attraverso uno smembramento fra le nuove potenze imperiali (e questo non è detto che avvenga con le vecchie tecniche delle occupazioni militari, perché ci sono mezzi più sofisticati e meno violenti per raggiungere lo scopo). L’Italia non è un partner forte in questo contesto, perché ha una opinione pubblica spaccata fra un pacifismo ideologico e per lo più velleitario (proporre più iniziative diplomatiche per la pace significa non sapere come funzionano queste cose) e un vago schieramento che si allinea a quanto viene deciso in vertici piuttosto confusi. Del resto non è che in Europa ci siano leadership forti che siano in grado di esprimere robuste linee di presenza: il famoso asse franco-tedesco è piuttosto malconcio, ora ancor più viste le difficoltà in cui si dibatte Macron.

Anche la questione di una possibile nuova crisi finanziaria non è una variabile da sottovalutare. Il pasticcio del Credit Suisse ha alla fine portato alla nascita di un colosso come la nuova UBS che ha una potenza economica superiore a quella della federazione elvetica, il tutto per salvare la finanza araba che aveva investito in azioni della banca ora fallita a spese degli obbligazionisti, cioè del risparmio che era stato raccolto sul mercato. Se è vero che in sé la vicenda svizzera può anche essere isolata perché non esporti contagio in Europa, c’è un allarme che arriva dagli USA per le difficoltà in cui si trova una ampia catena di banche di medie dimensioni. Ora, se questi travagli si saldassero con la vicenda svizzera, che qualche appendice in Europa ce l’ha, specie in Gran Bretagna, non sarebbe da escludere una nuova ondata di scosse che un sistema provato dagli anni della pandemia come è quello UE farebbe fatica ad assorbire.

È banale ricordare che l’Italia in questo contesto è col suo gigantesco debito pubblico un anello debole, tanto più che nessuno per far fronte ad una emergenza sarebbe oggi in grado di imporre sacrifici come fecero Prodi per l’ingresso nell’euro e Monti per far fronte ai pasticci della finanza creativa berlusconiana. Con i problemi che abbiamo a gestire i finanziamenti del PNRR e con le resistenze a qualsiasi revisione ragionevole di un sistema di piccoli e meno piccoli favori che si sono accumulati è una prospettiva piuttosto preoccupante (basta guardare alla pasticciata gestione della riforma fiscale sia da parte della maggioranza che dell’opposizione per capire a cosa alludiamo).

Decisamente Giorgia Meloni non va al Consiglio Europeo per gestire una situazione promettente per il nostro paese.

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