La lezione di Aldo Moro (anche per il Trentino)

Aldo Moro trascorreva le sue vacanze a Bellamonte

Lo spunto

Sono rimasto colpito da come nel Trentino sia passato quasi in sordina il ricordo del “caso Moro”, di quei 55 giorni che vanno dal 16 marzo al 9 giugno 1978, dall’agguato e rapimento dello statista in via Fani al ritrovamento del suo cadavere nella Renault rossa in via Caetani. Sono passati 45 anni, ma quella pagina tragica ha lasciato un’impronta profonda in tutta la storia d’Italia. Anche oggi, a distanza di quasi mezzo secolo, appare come un evento rivelatore della politica italiana, la “cartina di tornasole” che ne indica le potenzialità (sismografo di tutte le contraddizioni internazionali), ma al tempo stesso rileva la fragilità della sua classe dirigente, le debolezze del suo sistema di relazioni. Incertezze e contraddizioni nel caso Moro sono apparse evidenti. Le BR sono state sconfitte, ma l’ostaggio è stato trucidato. Ma allora perché non cogliere questa occasione per cercare di approfondire (anche ciò che Moro ha fatto per il Trentino)?
J.C.

Sì, nonostante l’enormità della tragedia appare riduttivo limitare il ricordo di Aldo Moro ai 55 giorni della sua prigionia e al suo destino personale, senza tener conto della “lezione” politica che nella sua vita ha trasmesso e che proprio nell’attuale contesto (la guerra ritornata in Europa, la “svolta a destra” del Paese…) acquista nuovo valore. Per non dire del suo ruolo determinante anche per il nostro Trentino nel promuovere la seconda Autonomia e pacificare l’Alto Adige dal terrorismo.

Ne ha parlato con affetto e lucidità sull’Adige Luciano Azzolini che gli era stato discepolo e amico. La caratteristica prima di Moro non è stata infatti la “sottigliezza”, ma – come richiama Azzolini – sentirsi sempre e comunque “uomo di scuola”, insegnante fra i giovani per realizzare l’aspirazione alla pace che sola consente la libertà. Ben lo sapeva la sua generazione uscita dalla guerra. Quando venne sequestrato Moro aveva nella borsa, assieme agli appunti del discorso in Parlamento a sostegno del governo di solidarietà nazionale, le tesi di laurea degli studenti che
avevano seguito i suoi corsi. La “sua” scuola era stata la Fuci (la Federazione degli universitari cattolici) e la Costituzione repubblicana, frutto di mediazioni defatiganti ma ricca, come egli ebbe a dire, di “feconde divergenze”, che non bisogna temere quando sono sorrette da un reciproco rispetto. Si capiscono allora anche le “convergenze parallele”, tenendo presente che Moro “costituzionalmente” intendeva un dialogo fra le masse cattoliche e quelle popolari, non un’alleanza fra i rispettivi partiti di riferimento. Ora di “masse” non ve ne sono più, c’è una società sempre più frammentata, ma l’esigenza di una ricomposizione rimane e si presenta forse ancora più urgente.

In questo senso Moro non smise mai di “insegnare”, e il primo insegnamento apparve sulla rivista Studium che egli dirigeva per la Fuci nel 1943. Era l’anno più tragico della guerra e Moro
invitava i giovani ad agire per riformare lo Stato, come premessa per rinnovarsi. Sempre le crisi devono dare stimoli di impegno, non essere alibi per lamenti e rancori.

È bene che anche Vita Trentina abbia promosso un evento in vista del 9 maggio per riprendere questa lezione valida ancora oggi. Purché la si depuri dall’errore (non solo moroteo) di credere che in Italia sia possibile l’“alternanza”. Questa non funziona più nemmeno negli Usa e a Londra, l’Italia resta un Paese di diversità, fra cui occorre mediare perché non si trasformino in fazioni. Questa “mediazione” Moro la esercitò nella vertenza altoatesina, proprio negli anni più cupi del terrorismo (Malga Sasso e Cima Vallona, 1966-67) respingendo ogni rancore di rivalsa e ponendosi invece l’obiettivo innanzitutto di ascoltare, ispirare fiducia, garantire gli italiani pacificandosi con l’Austria. Tre furono le tappe principali di questo percorso. La prima fu l’incontro che ebbe nel 1965 con il cancelliere austriaco Klaus, la seconda il confronto del 20 ottobre 1966 con Silvius Magnago, tre ore fitte di colloqui che stupirono, per la loro durata e intensità, lo stesso Obmann. Magnago seppe che poteva fidarsi. La terza fu a Bellamonte, dove Moro era solito trascorrere le vacanze e avvenne, come ricorda Giorgio Postal, la sera dell’ultimo dell’anno del 1966. Niente veglione e invece convocazione, in una fredda sala d’albergo dei principali rappresentanti della Dc trentina e altoatesina (da Piccolia Kessler, da Berloffa a Bolognini…) per convincerli ad appoggiare quello che sarebbe diventato il “Pacchetto”. Una grande lezione. Ecco, a tutto ciò occorre pensare ricordando il “caso Moro”.

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