L’inverno liquido del nostro scontento

Il testo scritto da Nardelli e Dematteis che collega la fine della stagione dello sci di massa ai cambiamenti climatici (edizione DeriveApprodi)

Lo possiamo chiamare davvero “Inverno liquido” (come il titolo del libro di Michele Nardelli e Maurizio Dematteis, presentato anche su queste pagine) non tanto per le alte temperature che stanno modificando il clima, ma perché si sta “sciogliendo” un modello di sviluppo ormai pluridecennale, basato sullo sci industrializzato di massa. Le alternative ci sarebbero (l’esperimento “soft” di questo inverno in Panarotta, di cui giustamente si è parlato a lungo?) ma non si vogliono promuovere, adeguandovi scelte e comportamenti.

Il fatto è che lo sci viene proposto sempre più in un contesto di strutture artificiali e iniziative d’evasione che stanno erodendo l’immagine stessa della montagna in cui si pratica, la sua capacità motivazionale. Il viaggio dei due autori, Nardelli e Dematteis, lungo le nevi d’Italia offre a questo proposito alcuni utili spunti. Il primo è la constatazione che lo sci di massa ha il destino segnato al di fuori, forse, di rarissime stazioni di consumo. Per la neve scarsa, certo, ma non solo.

In realtà s’è rotto il “giocattolo” dello sci. La crisi idrica renderà sempre più difficile e costoso l’innevamento artificiale, il quale, peraltro, si rivela sempre più non un intervento d’emergenza, ma un succedaneo spesso incompleto e deludente, portando a piste dure come il marmo, spianate dalle ruspe quasi fossero autostrade, pericolose per la velocità che consentono (si sta moltiplicando in maniera inaccettabile il numero degli incidenti domenicali). Non è un caso che il numero dei giovani diminuisca. L’impressione è che, al di là dei costi crescenti, dopo un po’ le piste vengano a noia, scenderle, ma anche risalirle, in “batteria”, anche in quattro per ogni seggiolino, chiusi in una bolla di plastica. Assurdo e sgradevole. Non è questa l’esperienza della montagna.

Il che porta a una seconda riflessione. Ci si chiede: non è forse per colmare questo “vuoto” che si moltiplicano, sulla montagna “eventi” più o meno mediatici e virtuali? S’è persa l’occasione di creare, attorno allo sci, una nuova cultura alpina e allora si trapiantano in quota “show” da piazzali urbani, ammantandoli di un velo di esotismo. Il primo esempio che viene alla mente è la proliferazione dei concerti rock, che possono piacere o non piacere, ma che alla cultura della montagna non appartengono proprio. Anzi la scardinano, le tolgono valore aggiunto (c’è anche il silenzio) e specificità, la banalizzano al livello di tv. Emblematico il titolo di un quotidiano locale per un concerto che si è tenuto alla fine di marzo: “Tanto Rock fra le Dolomiti di Brenta”. Una sfida fra band “le cui note attraverseranno le piste della Ski Area. Palco in località Dosson”. “Le cui note attraverseranno le piste della Ski Area…”. Ecco

Ma la montagna non può costruire il suo futuro, neppure turistico, diventando un palco di Sanremo per gli show e la sfilata di mattatori campioni. S’è persa la cultura di una “sacralità” della montagna (il lavoro, la natura, la crescita di se stessi) che caratterizzava le Alpi, bisogna davvero andare in Nepal per ritrovarla? Forse a liquefarsi non è solo la neve.

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