Una riforma da impostare senza pregiudizi

L’obiezione più strana che si fa all’avvio di un confronto sulle riforme istituzionali è che si tratterebbe di un’iniziativa del governo per non prendere in carico problemi più urgenti come sanità, PNRR, crisi abitativa. Non c’è ovviamente ragione perché un governo avviando un iter che sarà necessariamente parlamentare, perché non può prescindere dalle opposizioni, non si occupi anche delle altre questioni. È sperabile che un governo sia in grado di affrontare una ampia pluralità di problemi, altrimenti non si vede cosa serva avere tanti ministri (uno dei quali è appunto destinato alle riforme istituzionali).

Lasciando da parte questa perplessità, val la pena di entrare nel merito di quanto sta accadendo.

La discussione su come riformare non tanto la nostra Carta fondamentale, ma l’organizzazione della sua seconda parte è aperta fin dalla sua approvazione. Al contrario della prima parte, che nessuno ha pensato di riscrivere tranne Berlusconi nella sua primissima fase (ma lasciò ben presto cadere), la seconda risente dei difficili equilibri postbellici, a cominciare dal timore che potesse andare al potere una parte che si impadroniva di tutto, e anche dallo stato delle elaborazioni giuridico-politiche della prima metà del Novecento, nonché dal contesto culturale e politico di allora. Dunque adeguare un impianto che non si può dire sia del tutto soddisfacente non è un’eresia, tanto è vero che ci si prova con una certa intensità a partire dal 1983.

Purtroppo tutto è finito, come si usa di questi tempi, in una marmellata populista.

Da un lato la pretesa che la salvezza stia nell’ottenere plebisciti popolari: questo sta dietro le fantasie su presidenzialismo e “sindaco d’Italia”. Come si sa è un genere di strumenti che a volte funziona, ma spesso produce esiti poco felici: le dittature non hanno mai disdegnato i plebisciti. Dal lato opposto si è montato il mito della costituzione immodificabile per le sue nobilissime origini (in parte fatte consistere in invenzioni). Si dimentica che non solo la costituzione americana, modello certo di tenuta nel tempo, ha conosciuto vari emendamenti, ma la democrazia francese ha conosciuto diverse modifiche della sua costituzione senza che il carattere democratico venisse meno.

Dunque sarebbe ora di confrontarsi serenamente sui problemi, evitando lo show dello sventolio delle bandierine di ogni parte in campo. Innanzitutto va detto che non si può ridurre la questione all’elezione diretta del Presidente della Repubblica e/o del Presidente del Consiglio. Qualsiasi soluzione si assuma per questi nodi andrà poi messo mano all’adeguamento del contorno: tanto per dire, la questione del bicameralismo paritario, dell’organizzazione delle regioni, della legge elettorale. Ci aspetta di conseguenza un lavoro lungo e sperabilmente un confronto serio ed articolato.

Quanto al tema della elezione popolare diretta delle due cariche di vertice si deve distinguere, perché hanno ruoli diversi. Nel nostro sistema il Presidente della Repubblica ha un ruolo di arbitro e timoniere del confronto politico fra gli organi dello stato (non solo i partiti, ma le magistrature, l’alta burocrazia, le articolazioni sociali rilevanti), ma anche quello di interprete e motore dell’unità del paese. Per queste ragioni chi ricoprisse quella carica come frutto di uno scontro plebiscitario difficilmente potrebbe essere recepito come super partes e accettato anche da coloro che non lo hanno votato. Con questo però si dovrebbe evitare di concludere che allora va bene il meccanismo di scelta attualmente in vigore. L’elezione di Mattarella è stato un caso fortunato, ma un parlamento radicalizzato e conflittuale come quello di oggi non crediamo possa essere in grado di scegliere davvero una fisionomia quale quella necessaria. Sarebbe allora opportuno ragionare su come rivedere il collegio elettorale che seleziona l’inquilino del Quirinale in modo da garantirgli la necessaria legittimazione per un ruolo di arbitro.

Diverso il caso del Presidente del Consiglio. Anche qui c’è un largo consenso sul fatto che venga fornito di poteri che gli permettono di essere “premier”, cioè scegliere i ministri ed eventualmente licenziarli, disporre di poteri di direzione, ecc. Per fare questo non è necessario introdurre un sistema di investitura elettorale diretta. Già oggi in condizioni normali il Presidente della Repubblica incarica dopo le elezioni chi ha ottenuto il maggior gradimento dalle urne ed è perciò in grado di formare una maggioranza. Ciò che è utile è che se costui o costei perde quel gradimento in corso di mandato non sia necessario automaticamente un nuovo ricorso alle urne (sempre traumatico: vedi Israele e non solo), ma sia possibile sostituirlo all’interno della legislatura in corso.

Per evitare giochetti parlamentari che ben si conoscono è sufficiente il meccanismo della sfiducia costruttiva: per far cadere un governo ci vuole una maggioranza che ha già individuato il successore a cui andranno tutti i poteri previsti dal nuovo assetto costituzionale.

Come si vede lo spazio per discutere con proprietà non manca, a patto che si eviti il solito festival degli sbandieratori di professione che pensano solo ad esibirsi sul palcoscenico.

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