Le amministrative rafforzano l’immagine del governo

I risultati della tornata di amministrative conclusasi lunedì sono importanti, ma non risolvono certo i nodi davanti a cui si trova la nostra politica. Certificano che la destra-centro non ha vinto per caso lo scorso settembre, cosa di cui la sinistra non ha voluto tenere conto, convinta che le amministrative fossero come da tradizione un terreno facile per lei. Così non è, la dismissione di una tradizione riformista per rincorrere le mode dei talk show si paga con l’elettorato, così come una selezione poco attenta del personale politico. Adesso il governo si è rafforzato a livello di immagine (conta, eccome), sebbene ci siano problemi non indifferenti all’interno della sua maggioranza. Se da un lato Meloni ha gestito bene la sua presenza nella tragedia dell’alluvione in Romagna, dall’altro non è riuscita a frenare la bulimia di occupazione del potere che viene da tutta la sua coalizione: si tenga conto che se gli alleati pretendono posti, diventa poi molto difficile negarli a propri e restarne sguarniti.

I nodi importanti rimangono tutti da affrontare e non lo si può fare semplicemente esibendo la somma dei comuni conquistati. Partiamo dalla questione del PNRR che rimane un intoppo non da poco. Si tratta di smontare la dissennata programmazione fatta da Conte e subita poi da Draghi che assegnava frammenti dell’enorme finanziamento ottenuto (una trappola, anziché una risorsa) a destra e a manca. Adesso si scopre che così è ingestibile, ma sottrarre risorse per quanto impossibili da mettere a terra ai tanti centri a cui si erano assegnate significa aprire contenziosi, perché le sedi che saranno costrette a finanziare in proprio quello che avevano scaricato sui fondi europei non gestiranno questo passaggio col sorriso.

Poi c’è il tema fiscale, di cui si parla in modo frammentario, ma che è essenziale. Anche qui si è lasciata crescere l’aspettativa di riduzione della tassazione, fino alla continua agitazione dell’impossibile e ingiusto traguardo della flat tax, senza porsi la questione di come si finanzierà il welfare, che peraltro già non è che funzioni benissimo. La destra è prigioniera della sua demagogia su questo tema, ma lo è anche la sinistra che sogna patrimoniali e interventi draconiani. Per un poco si potrà fare melina, ma anche qui se non si vuole rompere con la UE sarà necessario arrivare a qualche decisione.

La problematica meno impattante in assoluto è la questione della riforma cosiddetta presidenzialista. Non è roba che appassioni la gran parte dei cittadini, ma Meloni ne ha fatto una bandiera e non si può negare che qualche messa a punto del nostro equilibrio fra i poteri aiuterebbe molto non solo una stabilizzazione, ma una crescita di efficienza della macchina pubblica. Sarebbe però necessario riuscire ad affrontare le problematiche senza sventolio di bandierine di parte, impresa che appare piuttosto ardua.

Sono tre nodi che metteranno alla prova non solo la leadership di Giorgia Meloni, ma la stessa tenuta della sua maggioranza, che è meno compatta di quanto non appaia. Essendo una alleanza squilibrata nel peso delle sue componenti, e soprattutto con una, la Lega di Salvini, in palese dissesto rispetto alle ambizioni del suo leader, può riservare sorprese. Consigliamo di rileggersi come hanno funzionato le maggioranze centriste e di centrosinistra ai tempi della DC: c’è molto da imparare.

L’opposizione dovrebbe approfittare di queste incrinature nella compagine di governo, ma non ci riuscirà finché correrà dietro alle mitologie sul fascismo che ritorna, su Satana alle porte e stupidaggini varie, che le impediscono di scendere sul terreno concreto del confronto serrato sulle riforme da fare. Certo si andrà poco avanti finché anche in questo campo non si risolveranno i problemi di equilibri interni.

Innanzitutto c’è la questione di lasciar cadere l’illusione che i Cinque Stelle possano essere una componente collaborativa: sono un partito in dissoluzione che lotterà solo per la salvezza dei suoi uomini e donne (quelli di vertice, ovviamente). Poi c’è il problema di una alleanza molto frammentata, con un partito “grosso” (il PD) che però non sa fare leadership vera e tante piccole componenti che rappresentano ciascuna settori limitati. Finché non arriva una guida che omogeneizzi questo assembramento non si avrà una opposizione non solo degna di questo nome, ma in prospettiva capace di sfidare la destra al potere.

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