Montagna fragile e “consumata”. L’amara ironia di Dalponte

Paolo Dalponte, Il sogno dell’alpinista

Lo spunto: Olimpo, Ararat, Mont Ventoux, Everest: bastano questi nomi a descrivere quale importanza la montagna abbia avuto e abbia nella storia e nella cultura a tutte le latitudini ed in epoche diverse. La montagna è assurta a simbolo di salita verso un’altra dimensione, verso la divinità o la conoscenza, verso la conquista o verso una più interiore analisi di se stessi. Soddisfazione di desiderio, luogo di solidarietà o di competizione a seconda delle situazioni: apertura di nuove vie alpinistiche o soccorso di persone in pericolo. La montagna è stata anche teatro di cruente e inutili battaglie. (….) Le forme delle montagne sono spesso simboliche, mitiche, ma non immutabili. Le antiche Ziggurat, evolutesi poi nelle piramidi egizie, altro non sono che geometrie architettoniche metafora della montagna, una solida base sulla terra e un vertice verso altri mondi. Francesco Petrarca (il poeta padre della nostra lingua) nel 1336 decise di scalare il Mont Ventoux in Provenza e fece di quella salita un’esperienza fisica non facile di elevazione verso il divino. L’Everest è stata mitica meta e confronto per gli alpinisti, poi attrazione turistica di lusso che ha lasciato il segno con tonnellate di cose abbandonate. Le mie montagne sono una sintesi anomala, in quanto personale della mia “visione”… ricordi, luoghi di emozioni e suggestioni, metafore di desiderio e forse di presagio di qualcosa di inaspettatamente effimero. La nostra vita come la vita della neve. Paolo Dalponte

La montagna è bifronte come l’antico dio Giano. Non è solo il luogo del mito e della fatica, dell’epopea e della tragedia, ma anche della spiritualità verso l’alto e della materialità che trascina tutto verso il basso, e di qui proviene il suo fascino, come ebbe a commentare il grande alpinista Kurt Diemberger, illustrando al Film Festival l’angosciante scena di un sacco “perduto” che precipitava dalla vetta al fondovalle lungo un interminabile pendio ghiacciato. Tutto trascina verso il basso tranne la volontà dell’uomo che sale verso l’alto.

Ma la montagna è forse, soprattutto, un linguaggio che parla all’uomo e gli racconta la sua diversità. È il linguaggio della natura che si spiega a chi non vuole comprenderla. Con la sua bellezza e la sua fragilità, con i mutamenti atmosferici che la colpiscono nella sua apparente immutabilità (come il crollo improvviso della Torre dell’Omo, nel gruppo del Carega nelle Piccole Dolomiti, come il baratro immane della scorsa estate in Marmolada…). è un linguaggio che insegna all’uomo la precarietà del vivere, che lo richiama alla sua responsabilità di fronte alla natura e alla montagna stessa, rinunciando a comportamenti sempre meno rispettosi, quasi la montagna fosse uno stadio per ultrà, un terreno su cui giocare e poi gettare via, come fanno i bambini annoiati. È un linguaggio che insegna a non farsi trascinare dalla presunzione che fa sentire l’uomo padrone di tutte le cose, simile a un dio che le domina, fin tanto che non le distrugge, assieme a se stesso.

È di questo linguaggio che va in cerca, per poi raccontarlo graficamente, con amara e preoccupata ironia il pittore Paolo Dalponte, in un prezioso ed elegante libretto dell’Editrice Rendena di Piergiorgio Motter che da tempo ne segue i lavori originali, sempre di grande intelligenza e buon gusto. Dalponte è pittore giudicariese, vive a Poja nelle Esteriori (lo stesso paese di Carlo Sartori) è stato autore di manifesti per i congressi Sat, collabora al quotidiano “il T” (l’ultima vignetta ha anticipato l’orso “toncato” da Andrea Castelli), ed ha da poco concluso una mostra sul tema della montagna a Tione, presso il Centro Judicaria. Nei suoi disegni Dalponte propone la montagna com’è cambiata, non solo per i mutamenti climatici, ma per quelli operati dagli uomini.

Una montagna che si vuole possedere e consumare invece che vivere. In alcune immagini traspare lo spirito che caratterizzò, quando uscì agli inizi del Novecento “La montagna presa in giro” di Beppe Mazzotti, ma in Dalponte c’è più amarezza per la banalizzazione che la montagna subisce quando viene ridotta a scenario mediatico, una montagna di cui gli alpinisti vogliono avere la chiave (per poi magari gettarla via, lasciandola aperta ai rifiuti del turismo di massa) o che costruiscono mentalmente, con studi e libri, senza poi viverla. Ma è anche una montagna che vuole uscire dalle sue ossessioni e cerca di riguadagnare la sua libertà. Ed è così che i disegni di Dalponte vanno “letti” (a quando una sua mostra anche a Trento?) per scoprire la forza di libertà che la montagna ancora conserva.

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