Don Giovanni Minzoni, il parroco controcorrente ucciso dai fascisti

Don Giovanni Minzoni veniva ucciso dai fascisti cento anni fa, il 23 agosto del 1923, l’anno in cui nasceva don Lorenzo Milani (27 maggio). Forse le due figure di preti che più hanno lasciato un segno indelebile non solo nella storia religiosa, ma anche in quella civile dell’Italia del Novecento. E che hanno ancora molto da dirci. Don Minzoni non si era piegato alle intimidazioni. La sera di quel 23 agosto, mentre tornava in canonica, due fascisti lo aggredirono a bastonate. Morì poco dopo. Aveva 38 anni. Era parroco ad Argenta, borgo agricolo in provincia di Ferrara, ma appartenente alla diocesi di Ravenna.

Proprio a Ravenna era nato il 29 giugno 1885, terzo di cinque figli di Pietro e Giuseppina Gulmanelli che gestivano una locanda. Avevano fatto battezzare i figli, ma non frequentavano la chiesa. Siamo nella bassa Romagna, socialista estremista, repubblicana radicale, ferocemente anticlericale, segnata da epiche lotte sociali e rivolte quasi rivoluzionarie. Giovanni fu mandato a studiare nel seminario arcivescovile della città. A studiare, più che a diventare prete. Lui volle diventare prete. A 17 anni fu conquistato dalle idee di don Romolo Murri e della sua Democrazia Cristiana. Un’avanguardia in campo cattolico, ancora dominato dalla rottura tra lo Stato unitario e la Chiesa, dalla diffidenza di questa verso la democrazia, dal conservatorismo sociale e dal conformismo teologico. L’enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII aveva aperto nuovi spazi di impegno e don Murri vi si era inoltrato, inventando quello che non c’era: un progetto politico ispirato alla libertà e alla giustizia sociale, un partito democratico, una base culturale. E la gioventù cattolica vi si era appassionata. Poi don Murri fu sospeso a divinis con l’accusa di modernismo. Il giovane Minzoni perse il suo riferimento. Ne soffrì molto. Nel 1909, dopo l’ordinazione, fu inviato come vice parroco ad Argenta. Era un pastore entusiasta e tradizionalista che seguiva fedelmente le direttive della Chiesa: oratorio, catechesi, Azione Cattolica, cooperative. Coi socialisti al potere in paese e l’aspro anticlericalismo dominante, la vita del prete era dura. Lui aveva un carattere gioviale e cercava il dialogo con tutti.

Nella Prima guerra mondiale, animato da forti sentimenti patriottici, partì volontario come cappellano militare. Tornato ad Argenta a guerra conclusa, lo vollero parroco. Anni roventi. Sembrava l’alba di una rivoluzione socialista, invece a vincere fu quella fascista. Con le minacce, le violenze, le uccisioni. A guidare lo squadrismo era il gerarca ferrarese Italo Balbo. Sarà indicato da molti come l’ispiratore, se non il mandante, della brutale aggressione a don Minzoni. Che non si era adeguato ai tempi. Aveva fondato il gruppo scout, mentre i fascisti volevano che i giovani frequentassero le loro organizzazioni e non tolleravano concorrenti. Aveva creato una cooperativa agricola, mentre i fascisti non volevano cooperative e stavano coi grandi proprietari terrieri. Si era abbonato al “Popolo”, il nuovo giornale del Partito Popolare diretto da Giuseppe Donati, il più intransigente degli antifascisti cattolici, mentre il grosso della stampa cattolica stava sposando la linea dell’accordo con Mussolini. E due anni prima, nel 1921, quando i fascisti avevano estromesso con la forza l’amministrazione comunale socialista e assassinato l’assessore Natale Gaiba, don Minzoni aveva condannato l’omicidio ed era andato in visita dalla vedova e dai tre orfani. Mussolini stava demolendo, col bastone e la carota, l’opposizione e cercava l’accordo con il Vaticano. Che non rimaneva insensibile alle lusinghe. E aveva imposto a don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare e antifascista, di andarsene in esilio.

In questo contesto, non piegarsi ai fascisti voleva dire andare controvento, da ogni punto di vista. E rischiare grosso. Don Minzoni lo sapeva: “Quello che succederà sarà sempre meglio della vita stupida e servile che ci si vuole imporre”, aveva detto. La sua morte, un caso unico, perché ad essere ammazzati erano i socialisti, scandalizzò, ma per poco. Dopo una breve fase segnata da emozioni e proteste (memorabili le denunce di Giuseppe Donati e della “Voce Repubblicana”), ma anche da reazioni ambigue (il giornale cattolico “L’Avvenire d’Italia”, che lavorava per l’intesa col regime, mise la notizia in seconda pagina), il ricordo di don Minzoni scomparve durante il ventennio fascista. Alla Chiesa, che lui aveva visceralmente amato, premeva l’alleanza col regime. Lui era un ostacolo. Nel dopoguerra, invece, non si fece che intitolare vie al suo nome. Divenne un’icona. Oggi, a cento anni dal martirio, con l’antifascismo messo sulla difensiva dai nuovi padroni della scena politica e della comunicazione pubblica, il ricordo di don Minzoni è più necessario che mai. Anche perché l’oblio ha colpito con lui, e non da adesso, le altre due grandi figure dell’antifascismo cattolico: Francesco Luigi Ferrari e Giuseppe Donati, entrambi morti quarantenni in esilio. Un trio formidabile che ha sempre molto da insegnare su cosa vuol dire testimoniare il valore della libertà. “Che io sappia”, scrisse di don Minzoni il suo miglior biografo, Lorenzo Bedeschi, “è il solo caso d’un parroco che, pur ancorato ai principi tradizionali della Chiesa, si mostra in regola anche con la libertà democratica fino a sacrificarle coscientemente la vita”.

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