La luce della poesia di Dante nella chiesa di S. Barnaba a Bondo

Il pannello introduttivo della mostra di Mauro Cappelletti

LO SPUNTO:

Si è inaugurata in luglio, nella chiesa di San Barnaba di Bondo, nelle Giudicarie, la mostra “Il Paradiso di Dante, nell’astrazione lirica di Mauro Cappelletti”. I 700 anni di Dante li hanno celebrati un po’ tutti, ma Sella Giudicarie s’è posta una domanda: Perché non celebrare le tre cantiche, Inferno, Purgatorio, Paradiso in tre anni diversi? Ho cercato di sistemare ogni cantica non fine a se stessa, ma in dialogo con il presente. Il primo anno era l’oggettività della fotografia sugli inferni del nostro tempo, l’anno scorso abbiamo celebrato la scultura, con il duro lavoro unito ai cambiamenti climatici, quest’anno affrontiamo la cantica più bella dal punto di vista dell’immaginario, ma anche la più difficile da tradurre. Ecco perché è stato chiamato Mauro Cappelletti, artista che fa parte dell’avventura unica del panorama trentino, partita negli anni Settanta; un gruppo di artisti che diede vita al manifesto dell’“Astrazione Oggettiva”. Dal figurativo hanno cominciato a lavorare in modo rigoroso e puntuale sul tema del colore. La mostra resta aperta fino al 3 settembre.Roberta Bonazza

Quest’estate i “sentieri” del Trentino non portano solo in montagna, sui rifugi, ma suggeriscono valli e paesi da raggiungere, attraverso una ricca proposta di mostre ed esposizioni. In questo “ventaglio” di proposte la mostra sul Paradiso dantesco nella pittura di Mauro Cappelletti, a Bondo, va al primo posto, non certo per fare graduatorie, ma per l’interesse che suscita la sua collocazione in una chiesa dedicata a San Barnaba (un santo lontano dalla tradizione alpina, fu il primo vescovo di Milano) e perché a Bondo si innalza il più grande sacrario della Guerra Bianca, che vide sull’Adamello la morte di tanti giovani innocenti. Il sacrario è dedicato soprattutto ai caduti austroungarici, ma vi sono sepolti anche italiani ed ora è diventato un segno di pace fra i popoli, come la Campana dei Caduti di Rovereto, nella speranza che le guerre, tornate a insanguinare anche l’Europa, finiscano. A questi giovani Dante avrebbe sicuramente dedicato un Canto del suo Paradiso.

Bondo, quindi, ma di là della Rendena, ecco in Val di Sole un’altra mostra, questa volta di un pittore dell’Ottocento, Bartolomeo Bezzi, con le sue opere esposte al Castello di Caldes e una ricchissima documentazione alla Torraccia di Terzolas. Sull’altro versante dell’Adige, a Cavalese in Val di Fiemme, da non perdere è la rassegna dedicata a Remo Wolf, il grande incisore e xilografo con tema la “Poesia della montagna”, mentre di là dal Lagorai, in Valle dei Mocheni, a Palù e a Fierozzo, viene esposta un’ampia selezione di fotografie di Flavio Faganello che rivelano la valle nella sua anima più profonda, nella sua capacità di “resistenza” naturale e umana.

Merita soffermarsi però su Bondo per l’originalità dell’approccio mostrato da Mauro Cappelletti nell’affrontare una sfida tanto difficile come dipingere (che vuol dire materializzare su tela l’inesprimibile) il Paradiso dantesco, ricco di figure umane ma immerso in un’atmosfera rarefatta, di “infinità” fuori dal tempo, ed anche fuori dalla storia. La mostra, infatti, per la collocazione individuata dalla curatrice Roberta Bonazza e dall’architetto Manuela Baldracchi, che l’ha allestita nella chiesa, si presenta subito coinvolgente. Se, infatti, nella trilogia di cui il Paradiso è il compimento, il Poeta risale dai cupi abissi dell’inferno umano ad una eternità di luce che tutto abbraccia, così il Pittore risale (sono sue parole) “dalla luce del colore al colore della luce”, attraverso una sublimazione dei colori che si fa luce, proprio come nel poema la parola si trasfigura in lirica. Scrive Cappelletti: “Sono partito dalla figurazione servendomi della materia cromatica per giungere all’astrazione, poi ho cercato di oltrepassare il colore per trovare in esso una luce che possa emanare energia”. Ma ogni Trasfigurazione “è” energia, e tutta la Divina Commedia è trasfigurazione. Dante l’aveva capito fin dal 1200.

È questa la chiave per comprendere come nella chiesa di San Barnaba l’“astrazione oggettiva” del 1975 di Cappelletti trovi l’energia per approdare ad una luce totale, che può essere anche il bianco assoluto, sintesi rarefatta di tutti i colori e di tutte le cose vissute, o l’azzurro di un cielo ancora vuoto, perché le vecchie stelle sono cadute, ingoiate dai “buchi neri” dentro un buio infernale, mentre le nuove stelle devono ancora essere accese dalle anime che raggiungono, purificate, il Paradiso. Con ciò Cappelletti compie anche un ulteriore passo nella sua arte e quasi ribalta l’“astrazione oggettiva” in una “oggettività astratta”. Ispirato dalle terzine dantesche il pittore si libera infatti dal peso della “forma”, approda ad una stesura sublimata del colore, e si apre a sensazioni che per essere meno visibili non sono per questo meno “oggettive” per la luce che irradiano e l’energia che trasmettono. è proprio dei versi del Paradiso restituirci figure irraggiungibili, ma portatrici di realtà profonde. Come Maria: “Vergine madre, figlia del tuo figlio…”.

In questo senso i pannelli di Mauro Cappelletti a Bondo, si rivelano come “introduzione” lirica al poema dantesco, ma si presentano anche come profonda proposta “illustrativa” delle ultime ipotesi scientifiche sull’universo, sul destino dei sistemi stellari, sul mistero del tempo, della sua finitezza o eternità. I brividi di luce del Paradiso pittorico si accompagnano bene all’affascinante libro, da poco uscito, “I buchi bianchi”, scritto dal grande fisico teorico Carlo Rovelli. Ché se i “buchi neri” trascinano tutto al loro fondo, in un buio “infernale”, la massa delle stelle spente e lo stesso tempo, i “buchi bianchi” consentono di fuoruscirne, sono una realtà capovolta, come una pellicola cinematografica che si riavvolge, un “tornare a riveder le stelle”, brividi di luce come tracce di ciò che è stato, di ciò che si è amato. Sono una conferma (non è un caso che i capitoli di Rovelli siano intercalati da frequenti citazioni dantesche) di quell’ultimo verso che Dante pone a conclusione del Poema come una trasfigurazione che tutti ci trascina con sé: “Amor che muove il sole e l’altre stelle”.

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