Il dialetto della terra, un libro che è un dono

Copertina del libretto di poesie di Pierino Piffer

LO SPUNTO:

Pierino Piffer oltre ad essere un coltivatore, amante della terra e degli animali, è anche appassionato di letture e di poesia. Il suo libretto di dodici poesie, ricche di umanità e dolci come l’uva che coltiva, sentono l’attaccamento alla terra – alla materia – ma poi sono sogno, mito, fuga dal presente troppo consumistico. L’impasto materico della poesia di Pierino si fonde con i colori e le forme di donne, uomini, animali, paesaggi e santi che sono quelle del suo territorio e dei suoi occhi, ma ancora più della sua anima fedele alla storia della gente contadina. Figlio di un mondo rurale, affettivo e solidale, nel rapporto con la natura e i suoi ritmi del sapere agricolo. Poesie intrise di quel piacere che solo l’amore e la dolcezza di un affetto grande e sincero sa dare, fatto anche di formaggio, vino, pesche, uva e verdura. – Antonio Marchi

Con gli ultimi giorni d’agosto e le prime brume di settembre, dalle campagne di Besenello ci arriva, oltre al raccolto di mele e uva, un dono speciale, frutto della terra anch’esso. È un libretto di poesie, umile ma prezioso; poche pagine di rime semplici, ma capaci di esprimere armonia. Confermano come la poesia – e in genere la ricerca di esprimere sentimenti sublimando la realtà di una vita dura, indagandone le ragioni oltre le apparenze – non sia appannaggio solo di letterati, di studiosi e di scrittori, ma costituisca un patrimonio comune per gente semplice e schietta. E possa anche essere un ingrediente necessario del vivere e del comunicare, anche in tempi di social e di telefonini per tanti selfie autoreferenziali.

Nei tempi “antichi” – lo si è sempre saputo – la poesia popolare ed i versi dialettali hanno raggiunto vertici altissimi nei nostri paesi e nelle nostre valli, eppure oggi veder uscire un libretto di poesie rappresenta un qualcosa di nuovo, che può anche stupire. Al tempo stesso ribadisce che la vita in campagna, a contatto con la realtà della natura, con le sue durezze, le sue illuminazioni, i suoi dolori, è essa stessa “cultura”. È cultura piena, tale da confermare come l‘agricoltura sia davvero l’attività “primaria” nel lavoro dell’uomo, della donna e della comunità intera: determinante non solo in campo economico, in quanto sorregge tutte le altre (in città i consumatori se ne accorgono, quando l’inflazione porta alle stelle i prezzi dei generi alimentari, con la penuria di grano dovuta alla guerra), ma “primaria” anche sotto il profilo sociale, per le sue dinamiche relazionali. Spicca ad esempio, nell’espressione dei sentimenti, il senso forte della famiglia, che è anche il perno di tutto il sistema economico e sociale.

S’intitola proprio “Vite” il libretto di poesie di Pierino Piffer che raccoglie nel suo piccolo mondo di Besenello attimi, persone, cose, santi votivi, luoghi, animali, momenti di gioia e rimpianti che le vite trascinano con sé. E che hanno appunto bisogno della poesia per essere “fermati”, dentro un tempo che scorre verso un misterioso infinito, per essere condivisi senza ridursi a ferite di solitudine. In “Daniela” c’è un rimpianto e un augurio: “Tu lasci amici e coro/ per seguire il tuo tesoro(,,,,) ma il tempo vola / e io ti vedo sola./Mentre prepari una pizza napoletana/ ti tornerà nella mente quella gente paesana. Ritornerà nella mente il tuo coro pieno di difetti ma dal cuore dì oro/ Intonavi con loro i canti di montagna/ e forse pensavi alla ninna nanna/ che canterai tra qualche anno/ quando cullerai un dolce panno”. Sembrano, questi pochi versi, una finestra aperta sulla vita di paese. Pierino Piffer ne ha scritto senza paura di semplictà in parole e rime, con schiettezza, cercandone però l’intensità ed anche la musicalità. Struggente. In altri versi è la piccola, ma tragica storia dell’ultima rondine, “L’ultima rondola” (e Toni Rondola era lo pseudonimo poetico che si era scelto l’indimenticato Marco Pola).

La rondine aveva il nido sotto una grondaia (“La gaveva el nif soto en tezòt/ che i lo vedeva anca en putelòt/). Ma un giorno, mentre la rondine volava sul paese un cuculo le ha messo le sue uova nel nido e allora la rondine ”co l’istinto da madre obediente” le ha covate tutte insieme,”no gh’emporteva niente”/ le sue e quelle del cuculo. Ma quando queste si sono schiuse i piccoli del cucolo hanno mangiato tutto il cibo, anche dei rondinini. Poi qualcuno se n’è accorto e ha tratto il cucolo e mamma cucolo fuori dal nido della rondine col risultato però che i cieli sono risultati comunque vuoti sia di rondini che di rondinini, ma anche il bosco è diventato silenzioso. Manca, infatti, il canto rassicurante del cuculo, che poi tiene puliti dagli insetti i pini… “La primavera el vegn tardi, l’autun el parte bonora/ l’è bel sentirlo, el par che el diga ghe sem ancora/ Adès no ghe pu né rondole, né putelòti/ ma sol i ultimi, strachi, veciòti”.

Un ricordo della giovinezza sull’altopiano della Scanuppia con quei luoghi verdi, ora banalizzati dal turismo di massa, è “La Scanucia che se lamenta/ che no se contenta” perché i piccoli prati che la formavano ora sono tutti sporchi “en de ogni praòt ghè en candelòt/ en de ogni valeta ghè na bozéta:/ I putelòti che magna biscòti/ i lasa lì carte e mosegòti./ Quando de mui gh’era i odori/ i feva men schifo dei vosi motori”/. Dopo, le villette hanno invaso i prati e la pace s’è persa, “ i cazadori coi so sciopeti i ciapa de mira sti pòri oseleti/. I vegn su co le moto, sbarai dal canòm/ no i fa che ghèto e ‘n gran polveròm/. I gira col casco, gasai, ‘sti spandoni/ e po’ i lasa tòchi en tuti i zezòni/. Mi voria calma e discreziom e no tuta sta rivoluziom/.

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