Agadir e Derna, catastrofi da non rimuovere

La terra d’Africa ferita in passato: cos’ in Marocco. La faglia di Agadir, dove nel 1960 un devastante terremoto fece 15mila vittime Foto Gianni Zotta

Ognuno di noi ha un amico o un conoscente marocchino in lutto: impossibile non parlargli. E solo un cuore di pietra può cambiare canale davanti all’uragano che ha spazzato via i fratelli della Cirenaica libica.

Con le loro vittime innocenti – 3 mila in Marocco, 10 mila in Libia, secondo le stime destinate a crescere – queste due catastrofi, di proporzioni spaventose, colpiscono per la loro proiezione nel futuro. Non solo per quella vicinanza psicologica – uno dei meccanismi con cui tendiamo a selezionare le notizie, allontanando quelle distanti dagli occhi – che nasce dai viaggi turistici che molti di noi si sono concessi (magari in luna di miele) sulle spiagge o sull’Atlante marocchino o, al contrario, per i tristi racconti di una guerra coloniale che ha portato i nostri nonni a combattere altri loro simili in Cirenaica e Tripolitania.

La proiezione nel futuro di queste tragedie deriva dal fatto che non può essere vero che “ci sono sempre state e ci saranno sempre”. Come si sente dire al bar quando ricordano il terremoto della faglia di Agadir nel 1960 o quando fanno osservare che anche 40 anni fa la Libia aveva registrato un’ecatombe simile. I meteorologi non hanno dubbi invece a ricondurre quanto avvenuto nella notte tra domenica e lunedì sopra le fertili pianure della Cirenaica ad uno di quei “fenomeni estremi” determinati dall’emergenza climatica del pianeta. Insieme al ciclone Daniel, già di per sé violentissimo, si sono combinati altri fattori ambientali che – dicono – saranno sempre più frequenti in questa situazione di “collasso climatico”. Un allarme che si aggiunge al fatto che la povertà è il fattore che rende vani tutti gli standard di sicurezza antismica (in Marocco non vi è stato scampo per le case dei villaggi più miseri della periferia di Marrakech) così come mette in evidenza gli errori della ricostruzione del passato: le due dighe crollate una dietro l’altra a Derna risultano costruite negli anni Settanta dalle maestranze jugoslave del maresciallo Tito, all’epoca partner del leader libico Gheddafi. Non dimentichiamo questo “Vajont libico”, quando tra poche settimane, il 9 ottobre, celebreremo i 50 anni della tragedia di Longarone, pure riconducibile a scriteriate scelte costruttive dell’impianto idroelettrico.

Le macerie delle città del Marocco e il fango dei villaggi libici non sono da rimuovere dalla memoria, in quanto avranno prevedibili conseguenze: creeranno nuovi poveri, quei “migranti climatici” – in fuga per questioni legate a catastrofi ambientali – che sono sempre più numerosi nel nostro pianeta. Teniamone conto in questi giorni in cui qualcuno si chiede “perché” c’è ancora chi prende i barconi e a Lampedusa in pochi giorni sono arrivate 5 mila persone, “come gli albanesi a Bari nel 1991 “, ha ammonito il pubblico ministero di Agrigento, Giovani Di Leo.
“Nessuno è profugo per caso”, come sanno bene i nostri missionari e i nostri cooperatori. Le cause delle migrazioni possono essere politiche, economiche, ambientali appunto e per questo un gruppo di studiosi della facoltà di Giurisprudenza della Sapienza di Roma – coordinato da Enzo Cannizzaro e da Umberto Triulzi – ha elaborato in questi giorni la richiesta che “il traffico di migranti sia qualificato come crimine internazionale”.

L’intento – come spiega padre Giulio Albanese su Roma Sette – è “restituire, dal punto di vista giuridico, il ruolo di vittime a chi si trova costretto a rischiare la vita per sfuggire a povertà o guerra”. “Se il migrante fugge dalla guerra o è perseguitato da un regime totalitario può essere accolto (qualificandosi appunto come profugo, vittima di migrazione forzata), se invece corre via da inedia e pandemie, in quanto nel suo Paese non esistono le condizioni di sussistenza, non può partire e deve accettare il suo infausto destino”. “La proposta formulata da questo team di studiosi – conclude Albanese -, supera finalmente la dialettica tra “rifugiati” e “migranti economici”, spostando l’attenzione e il dibattito politico e sociale sul vero problema: la relazione iniqua e peccaminosa tra i trafficanti (i veri criminali) e le loro vittime sacrificali (i migranti)”.

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