Il dettato di Mattarella, la cultura della cura

Proponiamo a tutti gli insegnanti di far leggere o riascoltare in classe il testo pronunciato sabato scorso a Trento dal presidente Sergio Mattarella. Anzi: esso andrebbe riletto anche nei circoli giovanili, negli oratori, nei centri sociali.

Per i giovani (non solo per loro) rappresenta un manifesto di limpida chiarezza, una fonte di motivazioni a cui ispirarsi nello spaesamento di questo tempo.

Prendendo spunto dalle tre applaudite testimonianze il Capo dello Stato ha osservato che “il volontariato è esattamente il contrario del paradigma di violenza cieca e di negazione dell’altro” ed è invece “attenzione e accettazione dell’altro, umanità, rispetto, integrazione”. Lo ha definito così, non come un dovere o un sentimento: “Il volontariato è dono”.

Un dono – aggiungiamo – da cogliere dentro questa terra aperta ai bisogni dei poveri fin dal patrono Vigilio (che aprì per loro un ospizio in piazza, come ha ricordato il sindaco Ianeselli), un dono da scegliere e da confermare ogni giorno con costanza, non solo in quest’anno… da Capitale.

Nell’evidenziare che il volontariato è una vocazione, “nasce dalla coscienza”, “esprime una visione del mondo”, “pone in primo piano la persona” Mattarella ha scandito un dettato, che va riletto passaggio per passaggio: s’intreccia col principio costituzionale della solidarietà (sancito nell’articolo 2), s’allarga ad essere “fondamento della civiltà europea”, può moltiplicarsi e “generare nuova speranza”.

Nel suo magistero ormai decennale Sergio Mattarella ha sempre saputo indicare percorsi graduali, personali e comunitari, esigenti eppure applauditi, radicali ma tali da raccogliere consensi da ogni ala del Parlamento. “Ha ragione, è così, non possiamo dargli torto”.

Anche nel suo “manifesto di Trento” (possiamo già chiamarlo così?) il giurista discepolo di Aldo Moro ha confermato la sua strenua capacità di mediazione, in nome dell’etica inscritta nella Costituzione, tenendo insieme posizioni apparentemente divergenti, spesso solo personalisticamente contrapposte. Ha preso applausi da ogni tribuna del Palazzetto e dalle giacche di ogni colore, perché il volontariato non va etichettato “di destra o di sinistra”; i valori della “comune umanità” non sopportano distinguo o polemiche di basso tornaconto elettorale.

S’intitola “cultura della cura” – un termine che viene dalla lezione della pandemia, più volte citata dal Presidente – il percorso indicato da Mattarella ai volontari come “portatori” di questa cultura che contrasta le spinte dell’egoismo e della paura dell’altro. “La cultura della cura – ha detto testualmente – è attenzione al bene comune. Cura significa passione educativa, capacità di includere chi è ai margini, trasmissione generazionale, sostenibilità ambientale, significa dare una mano a chi non ce la fa perché possa riprendere il cammino”.

Con il suo stile misurato e cordiale, inattaccabile ma non inimitabile, il Presidente della Repubblica ci si è presentato ancora una volta a Trento – come fu per le visite dedicate a Chiara Lubich e Antonio Megalizzi – come un riferimento solido per la coesione del nostro Paese e per la sua faticosa ripresa.

“In Sergio Mattarella oggi possiamo vedere anche un simbolo di quell’Italia che vorremmo essere, ma che non riusciamo ad essere”, è l’impressione lapidaria confidataci il giorno dopo da Luciano Azzolini, a lui legato da fraterna amicizia. Anche per questa autorevolezza di Mattarella abbiamo bisogno di attingere alle sue parole più incoraggianti: “Da questo mondo del volontariato – immerso nella vita di ogni giorno – riceviamo quotidianamente spinte, idee, valori, sogni”.

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