Non rose, ma molte spine nell’economia italiana

Foto SIR/Marco Calvarese

È diventato banale parlare di armi di distrazione di massa per tutto il chiacchiericcio che si fa sulle dispute fra i nostri partiti e i loro più o meno autorevoli leader, ricordando invece che i problemi del paese sono ben altri. È così, ma chiacchiericcio e problemi a volte si intersecano e si ibridano più di quanto possa apparire.

Poiché le varie narrazioni sugli scontri fra le forze politiche girano intorno alle prossime elezioni europee, sarebbe il caso di guardare un po’ più a fondo quel che si sta svolgendo in quello scenario. Sappiamo benissimo che la prova elettorale viene usata più che altro per testare il grado di consenso che ricevono i vari partiti visto che si vota con un sistema proporzionale in cui ciascuno corre da solo, ma ciò non può impedire che poi i risultati vengano giocati sul terreno delle relazioni a livello comunitario.

Tanto per rifarci all’evento che attualmente tiene banco, la cosiddetta rivolta dei trattori, cioè le manifestazioni dei contadini che riguardano tutti i paesi chiave (Francia, Germania, Olanda, Belgio, Italia), sarà bene ricordare che da un lato esse mobilitano un malcontento difficile da governare, e dall’altro chiamano in causa una gestione della politica UE che non è una meraviglia. Infatti, si devono ricordare le difficoltà di un settore che sconta un impoverimento dei guadagni, mentre le merci che produce alimentano filiere dove la redditività è ben più alta, innescando un detonatore sociale che non può essere sottovalutato.

Ci sono certo ragioni che rinviano alla complessità del mondo in cui viviamo: da un lato chiediamo ai nostri agricoltori di attenersi a protocolli rigidi a tutela della salute, dall’altro importiamo prodotti agricoli da paesi dove non c’è alcuna garanzia che qualcosa di almeno simile a quei protocolli sia attivo. I consumatori che possono permetterselo comprano prodotti italiani o almeno europei, ma con l’impoverimento generale dei redditi aumenta la fascia di chi deve fare i conti con disponibilità scarse per la spesa alimentare. D’altro canto sburocratizzare e contenere le politiche talebane di certo ecologismo fa correre il rischio di riaccendere le ruberie che sui finanziamenti all’agricoltura si sono fatte abbondantemente in anni passati soprattutto in certe zone d’Italia.

Poi, sempre per restare nel campo degli eventi che hanno attirato l’attenzione in queste settimane, c’è la crisi del settore automobilistico. Anche qui si parla delle prospettate chiusure di stabilimenti italiani da parte di Stellantis (riguarda l’ex Fiat), ma chi ci dà i numeri informa che già ora la nostra produzione di automobili è modesta e che il nostro mercato assorbe sempre più marche straniere. E se aggiungiamo che anche il settore della componentistica, fino a ieri nostro fiore all’occhiello, sta risentendo della crisi dell’industria tedesca che era il nostro grande acquirente, comprendiamo che non c’è proprio da stare allegri.

Non parliamo della crisi dell’ex Ilva, non proprio al centro delle cronache, ma in situazione sempre più precaria senza che si veda all’orizzonte una svolta. In tutto questo assistiamo ad una chiusura delle economie nazionali che dovrebbero raggrupparsi sotto l’egida UE: ciascuno pensa a sé stesso. La Francia è sul banco degli accusati perché tanto sulla questione dell’acciaio, quanto sul settore automobilistico, ha un governo più che interventista a detrimento della nostra politica economica. La Germania ha i suoi guai e certo non può occuparsi del nostro sostegno. Gli altri paesi sono lontani.

È pur vero che da altri punti di vista la nostra economia va discretamente bene. Un operatore specializzato ci faceva notare che in un quadro in cui si prevedono abbassamenti nel rendimento del denaro, i nostri titoli di debito pubblico sono molto appetiti perché danno ancora rendimenti alti (dovendo noi piazzarne tanti, siamo costretti a renderli attrattivi…).

Non sapremmo dire quanto questo quadro sia appropriato (la fonte però è qualificata), ma certo ci parla di un contesto molto lacerato dove tutti si muovono in concorrenza (anche con pochi scrupoli).

In un quadro del genere ha qualche senso la lotta fra i partiti per strapparsi qualche decimale di consenso in più? La domanda è il classico interrogativo retorico, ma andrebbe posta in continuazione a classi politiche che hanno così scarso interesse per i problemi urgenti e tanta voglia di discutere dei massimi sistemi (che, sia detto per inciso, conoscono poco e male).

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