Cronache messicane, un viaggio intorno alla Coca… e ai suoi derivati

Scadere nell’equazione Messico = Coca sarebbe banale persino per chi ha appena finito di vedere la terza stagione di Narcos. Altrettanto superficiale sarebbe affermare che nel paese la droga scorre a fiumi, visto che i fiumi – e le risorse idriche – vengono imbottigliate, e di certo non fluiscono.

È bene fin da subito specificare come non esista solamente la coca-stupefacente, gestita dai narcos, ma assieme ad essa convive e reclama il suo spazio anche la Coca-bevanda, gestita con gli stessi scopi di lucro e con gli stessi effetti sulla salute della popolazione, abituata all’eccesso, abituata alla morte.

Fatta questa premessa, a chi legge una libera interpretazione del significato da attribuire alla parola Coca.

MESSICO UGUALE COCA. FORSE. MA QUALE?

Nel visitare San Cristóbal de las Casas, una delle località più turistiche del Sud del Messico, sono rimasto deluso dal fatto che nemmeno il servizio di vendita di esperienze di Booking.com – di solito pronto a cogliere ogni opportunità – mi abbia offerto di visitare lo “stabilimento in questione”. Abitualmente quelli di Booking mi bombardano di e-mail appena prenoto una camera, proponendomi tour da fare una volta in loco e chiedendomi feedback sul soggiorno che, se espressi, sarebbero troppo tempestivi.

San Cristóbal de las Casas è una città da cartolina con le case basse e colorate di stampo coloniale e si sta rendendo sempre più conto di esserlo, forse anche grazie al suo recente passato. Dal 1994 la cittadina del Chiapas fu considerata roccaforte dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), qui orbitavano le “forze” del subcomandante Marcos che tanto hanno eccitato la sinistra globale ed ispirato i testi di Manu Chao, Rage Against the Machine passando per i 99posse, alfieri di un genere ormai estinto come la combat-music.

Situata a 2120 metri di altitudine sul livello del mare, nel cuore di un altipiano collinare, i suoi abitanti hanno sempre trovato protezione e rifugio nel placido e selvaggio territorio che la racchiude. Le montagne vergini che negli anni ‘70 proteggevano i quarantamila cittadini che risiedevano a Sancris, ora sono un alveare di case che accrescono la popolazione della città ad oltre duecento mila abitanti.

Tra un ristornate internazionale e l’altro, tra un argentino di carne ed un libanese vegetariano, una pizza veramente italiana ed un indonesiano vegano, i chiapanechi lamentano la scarsezza di botaneros, i rumorosi ristoranti tipici dove trascorrono le domeniche pomeriggio. Nonostante vi sia una densità ristorativa da fare invidia a Milano, vi è un ingombrante problema di gentrificazione del centro storico cittadino. L’offerta ristorativa è figlia di una felice ondata di turismo che ha contribuito nel dare ampiezza all’espansione della città, ma non è questo il contesto per parlare di cibo. Tuttavia, non in tutti i ristoranti si serve la Coca, cosa per nulla scontata, ma vi è chi resiste alla tentazione.

Tra i molti tour che vengono proposti a San Cristóbal de las Casas dalle numerose agenzie turistiche presenti in loco, vi sono le gite a cavallo alla scoperta dei villaggi indigeni, i giri in bici nei parchi limitrofi alla città, o escursioni a cavallo di mezza giornata per conoscere come si lavorano i tessuti, rigorosamente artigianali. Non manca la visita al sito archeologico Maya di Palenque, attrazione forse più famosa della regione, nel mezzo della selva Lacandona. Il sito viene offerto in combinata con un’escursione alle vicine cascate dell’Agua Azul, cascate sempre più disidratate, come lo spirito Maya.

Mi sorprende, dunque, manchi la visita alla fabbrica della Coca, autentico prodotto locale, almeno quanto il caffè, sicuramente più consumata in loco e “dai locals” rispetto al caffè, quest’ultimo esportato senza dargli troppa importanza.

Ecco, in un contesto turistico tanto sviluppato mi sarei aspettato anche questo nell’offerta della destinazione; sarebbe un tipo di turismo industriale, certo, ma anche le industrie hanno i loro interessi no?

La fabbrica viene invece relegata a protagonista secondaria della florida scena turistica. Eppure, Coca-cola è per il Messico una presenza di spicco e di prestigio.

La grandezza del problema è direttamente proporzionale all’entità del consumo. E, se il Messico è il Paese che più ne fa uso al mondo – seguito da Chile e Stati Uniti – allora, il Chiapas è lo Stato più prolifico del Paese primatista.

NELLA SELVA CHIAPANECA NON RESTANO NEMMENO I GIAGUARI

Lo stato del Chiapas è uscito dalle cartine fisiche per entrare in quelle politiche all’inizio degli anni Novanta. Quando tutto il mondo guardava a Berlino, tra le piante dalle foglie ovali e gli alberi di mango della selva Lacandona, si iniziavano a sviluppare alcune delle idee anticapitaliste ed ecologiste che avrebbero ispirato le piazze ed i movimenti “no-global” che tanto avevano turbato la presunta pace tra gli anni ‘90 e i primi 2000. Era una terra di passaggio, aggrappata al confine più sud del Messico, sopra il Guatemala, una fitta macchia di vegetazione che resisteva inalterata da millenni, curata con rispetto dai suoi abitanti.

L’attenzione mediatica ebbe una discreta eco intellettuale tra le sinistre internazionali, ma offuscò il problema silente dell’attacco all’acqua che in Chiapas stava avvenendo ai danni dei vulnerabili popoli indigeni, proprio per mezzo del governo che ne amministra la gestione.

Dall’Europa e dagli altri Paesi dell’America Latina ci si era ritrovati ad ammirare le gesta del comandante con la pipa, per quella che sembrava l’ultima battaglia rimasta da perdere da parte di un movimento internazionalista già di suo abbastanza disilluso. Del subcomandante Marcos spiazzava la forza del messaggio al netto della maschera, una schiettezza nei modi e nei contenuti che implicava ascolto e fiducia e che colpiva per i temi trattati, locali certo, ma di stampo globale. Una forma di sostegno che andava oltre la mera diffusione mediatica, e che si tramutava in azioni. Come ogni anno, anche nel 2024 per il trentesimo anniversario del movimento continuano le celebrazioni annuali: una tre giorni di spettacoli di teatro, partite di calcio, discorsi, pranzi, cene e parate semi-militari.

La passione per il calcio degli indigeni e delle indigene del movimento non è passata inosservata nemmeno al calcio professionista: nel 2004, Javier Zanetti aveva donato, attraverso l’Inter, 5mila euro, divise neroazzurre e un’ambulanza.

Trascorsi una dozzina di anni il tempo ha affievolito l’interesse e il Subcomandante ha smesso di esistere come personaggio; il movimento ha preso le sembianze di un fenomeno nostalgico, oggi portato avanti anche attraverso piccole librerie indipendenti che vendono gadget zapatisti, sogni, idee e valori. Sono definitivamente finiti i tempi in cui alle bancarelle si vedevano i passamontagna con la stella rossa (ormai vere opere uniche di artigianato rimaste) e Sancris poteva competere con Città del Messico per numero di librerie.

Del Chiapas si è saputo sempre meno, e sempre meno ce lo si è immaginato. Lo stato del sud-est del Messico ha giocato a nascondersi nella sua stessa selva, ma negli ultimi trent’anni (complice il tanto discusso accordo economico), al di fuori della selva, è stato plasmato da forze conquistatrici, un’altra volta.

Nel 2003, a sancire l’arrivo dello statalismo, erano arrivati anche i giaguari del Chiapas, a celebrare la via intrapresa dall’animale simbolo della regione: la via dell’estinzione.

Allo stadio Zoque della capitale Tuxtla Gutiérrez (zoque sarebbe l’equivalente nella toponomastica locale di “azteca” per lo stadio più famoso del Messico, nella capitale) dal 2002 al 2017 si è insediato l’Atletico Chiapas dopo aver acquisito il titolo sportivo per la prima categoria del calcio messicano da una squadra sradicata da Veracruz.

I giaguari, seguendo il tipico modello del campionato locale – una competizione che si vende al miglior offerente – hanno portato sponsor in città e hanno riempito di appassionati gli spalti della “Selva chiapaneca”, soprannome dello stadio verde e bianco.

Oggi, nella selva chiapaneca non rimangono più nemmeno i giaguari. Per vederli si deve andare allo zoo di Tuxtla o cercarne le magliette di un passato pieno di sponsor. Tuttavia, tra gli abitanti del Chiapas, rimane radicato uno spirito di consapevolezza verso il valore ambientale, spirito che però si sta perdendo tra le corruzioni della classe politica.

Nel 2024 le bancarelle del mercato, che nascondono l’accesso a una delle migliori chiese domenicane del Centro America, sono talmente colme di opere di artigianato che viene da diffidare del concetto stesso di artigianato. In questo labirinto che porta all’ingresso della chiesa, incontrare la commerciante risulta difficile: nascosta dietro pile di camicie con ricami, scialli, magliette, scarpe, cinture, tessuti di ogni genere, normalmente si cela una signora di statura minuta, che, annoiata al telefono, allatta il figlio al suo seno. Altri bambini, poco più grandi del lattante, corrono per il mercato confondendo il visitatore: può il mercato di Santo Domingo considerarsi l’estensione moderna della foresta chiapaneca?

L’impatto avuto da alcune multinazionali che hanno approfittato del territorio – difeso solo minimamente dai passamontagna e dalle azioni degli zapatisti, la cui area geografica, è bene ricordarlo, è ristretta ad alcuni municipi nella zona de Los Altos de Chiapas – è stato distruttivo anche per quella che sarebbe una terra sismica, abituata a reggere agli smottamenti del suolo dai tempi degli antichi Maya.

Oggi il Chiapas produce almeno il 40% dell’energia idroelettrica del Paese, e la sua ricchezza idrica si manifesta nell’intensità di verde del suo territorio, via via più impolverato, sbiadito; tuttavia resiliente a una stagione delle piogge sempre più corta.

Come coltivazione intensiva il caffè è stato invece introdotto solo nel secondo Ottocento da Geronimo Martinelli, un coltivatore italiano che aveva finito il terreno disponibile in Guatemala.

Ciò che conta è però che i chiapanechi non hanno l’abitudine di bere molto caffè. Chi lavorava nei campi al caffè preferiva il pozol, bevanda a base di cacao, avena e mais, oppure andava direttamente di pox, distillato di mais; in Chiapas si beve. Solo sono cambiate le abitudini di consumo.

L’aumento di caffeina, in ogni caso, è avvenuto, eccome! E non è imputabile alla colonizzazione, ma alla globalizzazione.

COCA, UNA BEN OLIATA CATENA DI DISTRIBUZIONE

Parlando di Coca e Messico, si potrebbe dire che, quando una cosa è talmente grande, è impossibile non vederla. Quando è perfettamente visibile, diventa allora tollerata ed il suo utilizzo da parte della società, accettato, diffuso e celebrato. Il tutto supportato politicamente – nello specifico dal coinvolgimento dell’ex presidente Fox, precedentemente impiegato dal colosso.

I corrieri della Coca circolano liberamente per soddisfare gli alti livelli di consumo. Le consegne avvengono a bordo dei mezzi più vari, siano essi pickup o furgoni di piccola-media taglia per i rifornimenti cittadini o grandi autoarticolati con rimorchio per i carichi extraurbani; sono mezzi puntuali, e sono accomunati tra loro dal colore, il rosso.

In base alla stazza del mezzo si impiegano da due a tre persone; raramente i corrieri operano da soli, se lo fanno è solo per tratte brevi o per il tempo strettamente necessario di carico e scarico. È un settore che garantisce forza lavoro e che richiede bassi gradi di specializzazione, se non una conoscenza di base del territorio e delle sue dinamiche.

Vedendoli – è impossibile non vederli – si nota la maestria con cui scaricano la merce. Pare seguano un rituale. Prima i pacchi più grandi e poi i colli più piccoli. Non manca mai la fase di controllo con il cliente perché si verifichi la correttezza della consegna. È una tutela per entrambi: gli uni, ambasciatori che non vorrebbero portare pena, gli altri venditori delle pene. La consegna, tuttavia, è un atto rapido; i corrieri hanno sempre fretta. Sono abili nel mantenere un livello di professionalità e distacco che permette di alimentare il mercato. Sanno di essere in prima linea, ma sanno anche che per loro, fare le consegne non è un lavoro come un altro, implica appartenenza alla causa.

Uno strumento di baratto

Il Messico odierno concede poco spazio alle antiche forze spirituali che ne hanno costituito il patrimonio precolombiano. Queste credenze sono conservate nelle rovine dei siti maya o olmechi, sepolte da anni di influenza statunitense nel mercato interno dei beni e dei consumi del Paese.

La Coca, ma come lei molte altre bevande zuccherate che si differenziano tra loro solo in base alla chimica del gusto, accompagna la vita dei messicani sin da quando sono bambini; in questo, unisce il Paese più di quanto lo faccia il discusso treno Maya o la passione per i tacos di canasta.

La Coca è arrivata ad assumere un’accezione aulica, diventa strumento di baratto, la si utilizza – addirittura – durante alcuni riti religiosi nelle comunità indigene, in sostituzione del pox. La Coca non discrimina ed i suoi consumi uniscono i ceti sociali del Paese: tutti la vogliono, tutti ne hanno bisogno. Come detto, la sua presenza è capillare.

Come tutte le presenze ingombranti, non manca nei momenti felici né in quelli tristi. Un rituale, che sta accompagnando in particolare le ultime generazioni in tutte le fasce della popolazione, plasmandone le abitudini, “rovinando famiglie”.

La sua assunzione, seppur pubblicamente sconsigliata da iniziative governative (e non), diventa un male necessario per la popolazione.

Nel 2014 il ministero della salute ha introdotto per legge su qualsiasi prodotto alimentare l’obbligo di porre sulla confezione gli eccessi di zucchero, grassi saturi e sodio, e ha tassato di un +10% i produttori; una misura non sufficiente a contrastare gli “eccessi” della popolazione, ormai abituata a ritmi di consumo insostenibili.

Da un lato, quindi, l’autodistruzione del proprio corpo; dall’altro, la beffa del sacrificio ambientale, che vede le risorse della terra razziate agli abitanti in nome della continua produzione.

Il potere delle multinazionali si estende come i tentacoli di un polpo e semina fiducia sul territorio sotto forma di pareti dipinte, frigoriferi nuovi, campi da basket inutili; si pretende visibilità cercando di farsi amare dalla gente, si crea desiderio e si genera assuefazione, fiducia. È ciò che rientra nelle attività di “responsabilità sociale di impresa”, dove si comprende tutto ciò che va oltre la mera generazione di posti di lavoro.

COCA, UNA DISTRIBUZIONE CAPILLARE E PERVASIVA

La strada che collega Tuxtla Gutierrez a San Cristóbal de Las Casas è una retta che copre 1600 metri di dislivello trafficata a qualsiasi ora, in qualsiasi direzione. Tre carreggiate uniscono i due mondi diversi che si sono sviluppati in Chiapas. Sul fondo si trova Tuxtla, la capitale federale, una città priva di identità e plasmata dalle grandi marche e dai loro ingranaggi; dall’altra, in cima alla salita, San Cristóbal de las Casas, la capitale culturale della regione. È su questa “autopista” che i camion ed i loro rimorchi trasportano il prodotto dal sito di produzione di San Cristóbal, al centro di smistamento logistico di Tuxtla; da lì le varie dosi entreranno nel mercato messicano, pronte a soddisfare l’alta domanda di Coca.

Proprio in Chiapas, i consumi oscillano tra i due ed i tre litri al giorno per abitante; un dato che rende questa regione, la più altra consumatrice al mondo della bevanda zuccherina. Un dato che per essere prodotto richiede alla collettività l’impiego di almeno il doppio dei litri della loro acqua.

In un mercato strettamente capitalista la politica di prezzo è decisiva e la discriminante è la disponibilità. La Coca-cola è acquistabile in qualsiasi formato, di taglia o di prezzo. La bottiglia da tre litri, si pensi a un tre litri di vino per intenderci, è un formato di successo: familiare. Le boccette più piccole arrivano a misurare 250 millilitri, 40 centesimi di euro, quanto basta per sopperire invece a un bisogno impellente. Nel mezzo esistono almeno altre cinque misure, alcune delle quali in vetro e a rendere, a conferma che la sostenibilità passa dai piccoli gesti.

La disponibilità, invece, è capillare. La si può incontrare nelle catene di mini-market che garantiscono il consumo costante, ma anche negli abarottes (i piccoli negozi a conduzione familiare) di quartiere, i quali sono sempre riforniti da almeno un frigorifero rosso fuoco; anche le farmacie non possono esimersi dal venderla, quasi a celebrare l’origine medica della sua formula segreta. Venderla conviene a tutti.

È un cane che si morde la coda, e la coda sta nella tacita possibilità di accedere a delle risorse pubbliche per fini privati, per poi rivenderle al grande pubblico.

E lo spirito di lotta?

Facendo un salto indietro nel tempo a trenta anni fa, quanto a San Cristobal abitavano 75.000 persone, tra le preteste del subcomandante Marcos vi era il tirarsi fuori dall’accordo commerciale di libero scambio (Nafta) tra Messico, Stati Uniti e Canada, che sarebbe entrato in vigore la notte tra il 31 dicembre 1993 e il primo gennaio 1994.

Nonostante nelle scuole dentro le comunità zapatista si insegni tra le varie materie extra-curricolari “la lotta” – intesa come disciplina dialettica prima che fisica-, la più grande battaglia, quella anticapitalista, può considerarsi persa su grande scala. Una battaglia, che seppur di stampo globale, si è beffardamente svolta proprio a San Cristóbal de las Casas.

Il sito produttivo di FEMSA – l’azienda imbottigliatrice di Coca-cola – venne infatti aperto proprio nel 1994, con un tempismo perfetto rispetto all’entrata in vigore dell’accordo commerciale; stabilimento, che giunti a questo punto, comprensibilmente non è visitabile. Il tutto accade in uno Stato dove l’acqua potabile continua a non scorrere dai rubinetti, ma circola in boccioni da 20 litri su mezzi molto più sgangherati dei fiammanti camion rossi impiegati per distribuire la Coca; un territorio dove le precipitazioni sono di anno in anno più scarse e dove anche l’acqua è gentilmente imbottigliata e rivenduta ai cittadini dalle multinazionali stesse.

In un paese, dove il governo nel 2006 ha intrapreso una sanguinosa guerra al narcotraffico, generando 135.000 morti in quindici anni, anche il diabete contribuisce a portare morte, seppure in maniera più pacifica: 140.000 morti l’anno, un trend in crescita che contagia il 10% della popolazione. È in questo contesto che si svolge il caso di studio perfetto di marketing di Coca-Cola. È su quel campo da basket riempito unicamente dal suo brand rosso e rotondo dove ormai rimbombano inascoltati i rimbalzi muti dei consumatori, è lì che trionfa il successo del marketing. Insomma, il diabete ammazza più dei narcos, ma almeno la Coca disseta; forse l’equazione Messico = Coca, non è poi così banale, solo alcune variabili necessitano di un’analisi più approfondita.

(Questo reportage-testimonianza di Davide Iori, accademico del turismo”, autore del blog https://turistadelturismo.com, è stato pubblicato in quattro puntate sui numeri 17, 18, 19 e 20 di Vita Trentina)

Davide Iori
vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina