Sono bastati pochi giorni per raccogliere più delle 500 mila firme necessarie per indire il referendum sulla cittadinanza lanciato all’inizio di settembre dal deputato Riccardo Magi di +Europa.
Il quesito, sostenuto in poco tempo da oltre 60 associazioni, mira a ridurre da 10 a 5 il numero degli anni di residenza stabile in Italia necessari per presentare la domanda di riconoscimento di cittadinanza, potendo poi estendere automaticamente la cittadinanza ai figli minorenni. Un provvedimento che, se venisse adottato, riguarderebbe oggi oltre due milioni di persone.
La proposta si colloca all’interno di un lungo cammino che parte dall’introduzione della legge 91/1992 che stabiliva per la richiesta della cittadinanza dieci anni di residenza legale e ininterrotta e il compimento della maggiore età. In questi trent’anni sono state numerose le richieste di modifica avanzate da chi si occupa di diritti, e in particolare di diritti dei minori, di fronte alle vistose discriminazioni che la normativa manteneva. Ma il violento scontro che infiamma il dibattito politico ogni volta che si sfiora la questione della cittadinanza – si pensi agli ultimi contraddittori sullo ius scholae – ha congelato la possibilità di riformare un provvedimento che dopo tre decenni, in una società e in un mondo profondamente cambiati, mostra tutti i suoi limiti.
Eppure il riconoscimento della cittadinanza è una questione di civiltà. E lo è tanto maggiormente quando si parla dei minori. Nelle scuole italiane lo scorso anno scolastico c’erano più di 900.000 bambini, bambine, ragazzi e ragazze stranieri. Cresciuti o nati in Italia (le seconde generazioni rappresentano il 64,5%, i due terzi del totale!), frequentano le scuole con i nostri figli e nipoti, giocano e fanno sport con loro, studiano la letteratura e la storia sugli stessi libri, hanno gli stessi sogni, le stesse aspirazioni e identiche passioni. Tuttavia non godono sempre degli stessi diritti. Questa condizione rende loro più difficile la prosecuzione degli studi, l’ingresso nel mondo del lavoro, la realizzazione di un progetto di vita, costringendoli spesso a vivere per molti anni in una sorta di limbo nel quale restano “stranieri” all’interno dell’unica società che hanno conosciuto. Una condizione che magari fa comodo a chi la sfrutta sul piano politico; ma che rallenta il processo di integrazione che sta alla base della convivenza pacifica nella cornice del dettato costituzionale.
Nel corso degli ultimi anni alcune amministrazioni comunali hanno praticato il conferimento della cittadinanza onoraria ai minori stranieri nati in Italia e residenti nel comune. Ma si tratta di un “titolo onorifico” che, seppure rappresenti un messaggio di inclusione, uguaglianza e di lotta alle discriminazioni, non risolve il problema.
Che cosa succederà ora? Il referendum verrà indetto solo se firme e quesito passeranno il vaglio di Cassazione e Corte Costituzionale. Solo allora inizierà la vera sfida, una sfida di civiltà. Perché si dovrà raggiungere il quorum e i “sì” all’abrogazione dovranno essere infinitamente di più delle firme raccolte.
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