Elezione alla Consulta, non si fa politica con le spallate

La prima pagina de il Quotidiano del Sud di martedì 8 ottobre

La vicenda per l’elezione del giudice mancante alla Corte Costituzionale dopo la fine del mandato di Silvana Sciarra è l’esempio lampante di una politica che non riesce a funzionare neppure quando si tratta di adempiere a doveri istituzionali. Sono dieci mesi che quella posizione è vacante, dovrebbe essere assegnata in un mese, in realtà è oggetto di un tira e molla che non fa fare bella figura né alla maggioranza né all’opposizione.

Fino a qualche settimana fa tutti erano convinti che non se ne sarebbe fatto nulla fino ai primi mesi del 2025, quando, terminato il mandato di altri tre giudici eletti dal parlamento, fra cui il presidente Barbera, ci sarebbe stato spazio con quattro posti liberi per un accordo fra maggioranza e opposizione: alla prima ne sarebbero andati tre (guarda caso: tre, quanti sono i partiti della maggioranza…), all’opposizione il quarto (e qui ci si aspettavano scintille per vedere come mettere d’accordo le sue molte componenti). Un bel contesto per mettere insieme negoziati, se non vogliamo chiamarli mercati, trasversali fra tutte le varie forze parlamentari.

Il quadro è cambiato all’improvviso quando di fronte alla convocazione delle due Camere in seduta congiunta, cosa che andava fatta per un minimo riguardo a Mattarella che aveva denunciato il vulnus provocato dalla stasi nell’elezione, qualcuno, non proprio geniale, ha fatto notare che forse i numeri per riuscire nell’impresa si potevano trovare da parte della sola maggioranza di governo. Infatti occorrevano 363 voti, la coalizione sulla carta ne avrebbe avuti 353 o qualcuno di più grazie ad un po’ di transumanze parlamentari, si trattava di comprarsi più o meno una decina di voti supplementari e il gioco sarebbe stato fatto.

Il calcolo era sbagliato. Prima di analizzare i problemi di sostanza, fermiamoci sulla arida questione dei numeri. Già i presenti non erano sufficienti: erano 342, tutti della maggioranza, si suppone, visto che le opposizioni avevano disertato l’Aula, dunque in numero comunque insufficiente per raggiungere il quorum richiesto. Per di più le schede bianche, che testimoniavano l’adeguamento dei parlamentari facenti capo alla coalizione, la quale aveva deciso, vista la mala parata, di non bruciare il proprio candidato, sono state solo 323. Non proprio un esempio di granitico controllo dell’aula.

Veniamo alle questioni di sostanza. La narrazione di quel che si doveva fare è più che discutibile sia sul versante della maggioranza che su quello dell’opposizione.

Innanzitutto, non è vero che la costituzione preveda l’elezione di candidati che raccolgano consenso in entrambi gli schieramenti.

Semplicemente prevede che abbiano un consenso molto ampio. Che ciò significhi di norma andare oltre la forza della maggioranza del momento dipende dal fatto che in concreto, in un sistema assai frazionato come è il nostro, difficilmente ci può essere una maggioranza sia con numeri così larghi, sia così compatta da potere nel caso difenderli.

È vero invece che la ratio costituzionale prevede giudici costituzionali al di sopra degli schieramenti politici. Lo si ricava dalla composizione della Corte che è designata dal parlamento solo per un terzo, mentre un altro terzo è di nomina del Presidente della Repubblica e un altro terzo delle alte magistrature. Dunque, come hanno osservato in molti, è una composizione molto diversa dalla Corte Suprema statunitense (tutta di nomina presidenziale) e anche da quella tedesca (tutta di nomina parlamentare): nella nostra prevale la ricerca di un equilibrio fra i diversi soggetti che concorrono alla formazione delle leggi (e alla loro gestione). Finora, salvo qualche scivolone, il parlamento ha operato scegliendo sì giudici abbastanza chiaramente riferibili a componenti dello spettro politico-partitico, ma tali da rivestire una “storia” che ne sottolineava l’indipendenza dalle varie segreterie.

La scelta di Giorgia Meloni di candidare invece il suo consigliere giuridico in carica, autore, o coinvolto in normative che sarebbero finite sotto l’esame della Consulta, suonava come un atto di bullismo politico, una inclinazione a cui purtroppo la premier soggiace non di rado. Se avesse provato a forzare con un candidato dell’area di suo riferimento, ma meno interno alla sua cerchia di collaboratori avrebbe avuto forse miglior fortuna (ma, va detto per onestà, non se la sarebbe cavata con gli appetiti che sarebbero allora venuti dai suoi alleati).

Va aggiunto che anche l’opposizione non ha fatto una gran figura. Scegliendo di non partecipare al voto nel terrore che se presenti in aula le sue truppe sottobanco potessero disperdersi in qualche sostegno (più o meno mercanteggiato) con la maggioranza, ha mostrato che non esiste come blocco convinto e alternativo. Non si è fatta contare, ma non è così che può guadagnare il consenso che le serve per scalzare l’attuale compagine di destra-centro.

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