Mentre il mondo brucia (una volta si sarebbe usata questa metafora), la politica italiana lavora ai piccoli posizionamenti: questo almeno è quel che ci mostrano le notizie sull’andamento dei vari scambi fra i partiti e sulle mosse del governo.
Sembrerebbe che il fatto più rilevante per ciò che riguarda il mondo dei partiti sia la conclusione, non sappiamo se momentanea o definitiva, della diatriba fra Grillo e Conte (più probabile la prima). L’attuale leader di M5S è prevalso nella seconda chiamata alle urne del suo partito, ottenendo la conferma dell’estromissione del Fondatore/Garante e della posizione di assoluta preminenza del presidente (pur mascherata da una parvenza di democrazia). Il problema è ora se il voto dei militanti può rappresentare il consenso degli elettori pentastellati: la sproporzione dei numeri fra le due componenti qualche dubbio dovrebbe farlo sorgere.
La questione non è secondaria perché le prossime prove elettorali che attendono Conte sono elezioni regionali e comunali. Da un lato si tratta di tipologie in cui i Cinque Stelle non vanno bene, dall’altro pongono il tema dell’alleanza col PD che è un aspetto sempre più caldo per loro. In queste contingenze si sommano le provocazioni di Grillo che fa di tutto per far apparire Conte come un valletto di Schlein con le contromosse di quest’ultimo che per scrollarsi di dosso questa immagine attacca il PD su vari fronti (a partire dalla politica sull’Ucraina e sulla UE). Il risultato finirà per essere duplice: renderà difficile la politica testardamente unitaria di Schlein e disorienterà gli elettori dei pentastellati. Un mix che può mettere più in crisi l’esistenza di una opposizione capace di sfidare i fortini del destra-centro (e magari può mettere in forse la tenuta di contesti dove il centro sinistra poteva essere in vantaggio: la regione Campania e il comune di Milano tanto per citare due casi emblematici).
Come sempre per nascondere le proprie debolezze si possono massimizzare quelle dell’avversario, ed è su questo che l’opposizione punta per mettere in crisi la coalizione di governo. Il fatto è che anche in questo caso la situazione è piuttosto ambigua. Giorgia Meloni può vantare una situazione economica in cui ci sono molti lati positivi, mettendo fra parentesi gli aspetti critici che non mancano. La situazione economica è a macchie di leopardo: ci sono ceti che stanno ancora bene o abbastanza bene (lasciamo da parte i ricchi, che sono una minoranza), ceti che galleggiano ma in situazioni relativamente accettabili, ceti che non solo si impoveriscono, ma in alcune fasce stanno proprio finendo nella povertà.
Per cinico che possa sembrare, la nostra impressione è che la maggioranza di governo scommetta che le prime due fasce nonostante tutto siano dalla sua parte, non da ultimo perché temono che le opposizioni per razionalizzare la situazione le impoverirebbero, mentre la terza componente, che è stimata meno ampia della somma delle altre due, si crede formata da elettori che comunque per tradizione sono orientati a sinistra, o che non vanno neppure a votare perché diffidenti verso tutti i partiti.
Stiamo sempre parlando di calcoli che un buon politico dovrebbe considerare a dir poco azzardati, ma tant’è. Quel che possiamo vedere è che pur con un bilancio dello stato da varare, bilancio che non ha margini di flessibilità, i partiti di governo non rinunciano alla caccia alle piccole prebende da guadagnare per fasce dei loro elettori che stanno nei due ceti di cui abbiamo parlato, non di rado a dispetto di un minimo di decoro quanto a morale pubblica. La premier cerca di contenere le tensioni con la minaccia di usare l’arma atomica della fine anticipata della legislatura, ma i suoi poco solidali alleati non si impressionano perché sanno che, allo stato dei fatti, sotto quella atomica probabilmente perirebbe lei per prima.
Anche sul fronte della maggioranza la rincorsa del consenso di ciascuno a scapito dei partner porta ad accentuare le sceneggiate identitarie. Dare qualcosa a ciascuno è diventato estremamente difficile. Citiamo il caso più emblematico, le riforme istituzionali. Dovevano esserci l’autonomia differenziata per la Lega, il premierato per FdI, la separazione delle carriere dei magistrati per FI, ma la prima riforma è ingloriosamente fallita, la seconda è stata messa in stand by perché non si riescono a scioglierne i nodi (vedi legge elettorale), la terza approderà all’approvazione in commissione al Senato, ma c’è da pensare che anche in questo caso si avvierà il solito processo che porta tutto in una palude.