«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri»

18 maggio: V domenica di Pasqua – C

Letture: At 14,21b-27; Sal 114; Ap 21,1-5a; Gv 13,31-33a.34-35

«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)

Se siamo alla ricerca del volto di Gesù, lo possiamo trovare in queste parole. Si tratta di un testo molto breve situato nel contesto dell’ultima cena quando, per l’unica volta nel Vangelo, Gesù si rivolge ai suoi discepoli chiamandoli «figlioli», un termine carico di tenerezza. Proprio dalla tenerezza di Gesù, scaturisce un dono: «Vi do un comandamento nuovo: come io ho amato voi così amatevi anche voi gli uni gli altri». Si tratta dell’unico comandamento di Gesù a noi suoi discepoli, un comandamento che scaturisce dall’amore e chiede amore.

Ma il verbo amare, purtroppo, è una dei termini più abusati: chiamiamo amore forme patologiche di dipendenza dall’altro per paura dell’abbandono e della solitudine; chiamiamo amore la manipolazione dell’altro. La cronaca ci ricorda continuamente che esistono “amori” disperati e violenti, “amori” distruttivi che portano all’annientamento dell’altro.

Che cosa vuol dire allora amare? Gesù lo suggerisce con un’aggiunta: amatevi come io ho amato voi. La novità non è dunque nel verbo ma nell’avverbio: come io ho amato voi. Il verbo utilizzato non è un futuro: Gesù non parla della croce che pure già si staglia sul suo cammino, parla di fatti appena vissuti. Parla del suo inginocchiarsi davanti ad ogni discepolo per lavare i loro piedi; parla dell’offerta del suo corpo e del suo sangue a tutti, persino a Giuda che dopo essersene cibato è uscito, sprofondando nella notte.

L’amore di Gesù non è un sentimento: è la decisione di abbracciare l’altro, di vedere in lei o lui l’immagine e somiglianza di Dio che è chiamato a diventare. In Simone il pescatore entusiasta ma fragile vede la roccia; nella prostituta condannata a morte vede un futuro di conversione e di pace; nei discepoli spaventati vede missionari coraggiosi del vangelo. È l’amore che trasforma la vita perché guarda con occhi diversi; è l’amore che proietta nel futuro perché dona sempre una possibilità nuova.

Per questo Giovanni lega il comandamento dell’amore alla glorificazione. Nell’antico come nel nuovo testamento la gloria è la manifestazione visibile del Dio invisibile. È facile comprendere allora come l’evangelista abbia visto in Gesù l’incarnazione della gloria divina, l’icona del Dio invisibile che cammina tra gli uomini compiendo gesti concreti di liberazione, guarendo i ciechi, moltiplicando i pani e facendo risorgere i morti.

I discepoli, dunque, possono amare solamente perché Lui li ha amati, perché pone nei lori cuori il suo stesso Spirito, lo Spirito di santità, amore che guarisce e trasforma. Per questo possono fare scelte e compiere gesti di amore in ogni situazione perché sono amati e hanno la forza di amare. I discepoli possono amare perché Cristo ama attraverso di loro, perché la loro vita e la loro comunione è il luogo dove incontrarlo, è il prolungamento nei secoli della sua umanità. Concretamente indica che si tratta di un amore gratuito e fattivo, che incontra Gesù nell’altro e si esprime in gesti concreti di liberazione: pane per gli affamati, acqua per gli assetati, vestiti per gli ignudi, visita ai carcerati e agli ammalati…

Amando come Gesù, la comunità dei discepoli costruisce pietra dopo pietra la nuova Gerusalemme, la dimora di Dio tra gli uomini dove «non vi sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,5).

Chiediamoci: come siamo consapevoli dell’amore di Cristo per noi? Come lo esprimiamo in gesti concreti e quotidiani?

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