29 giugno: Ss. Pietro e Paolo, Apostoli – C
Letture: At 12,1-11; Sal 33; 2 Tm 4,6-8; Mt 16,13-19
«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16)
Il martirio ha legato per sempre Pietro e Paolo, due personalità complesse, diverse e talora in conflitto (Gal 2,7-14). Eppure, entrambi sono stati affascinati da Cristo e hanno dato la vita per testimoniarlo. Entrambi hanno conosciuto anche l’esperienza del peccato: Pietro rinnegò Gesù nella notte del suo arresto e Paolo perseguitò il corpo di Gesù, la sua chiesa. Entrambi furono messi a nudo dalle domande del Risorto: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?» (Gv 21,15); «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4). Pietro fu ferito e Paolo accecato da queste parole: grazie a questa esperienza, tuttavia, hanno compreso che la santità non sta nell’innalzarsi ma nell’abbassarsi; non consiste nella ricerca del potere ma nell’affidare ogni giorno la propria piccolezza al Signore, nella certezza che Egli compirà grandi cose attraverso la povertà umana. Entrambi, infatti, spesero la vita per Lui: annunciarono, confermarono la fede dei loro fratelli, edificarono comunità vive e furono fedeli fino al martirio.
Da dove scaturisce questa passione missionaria? Nelle loro vite c’è un incontro che costituisce un punto di non ritorno. Per Pietro è una parola, «seguimi», che segnerà l’inizio e la fine della sua vita (Mc 1,16-17; Gv 21,22) e sarà ripetuta nei momenti di crisi (Mc 8,33); per Paolo è una luce accecante incontrata sulla via di Damasco. Per tre anni Pietro cammina con Gesù, affascinato dalla sua persona; lo riconosce come «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» e crede nel suo amore. Paolo riconosce nel Figlio dato per la salvezza del mondo il Messia a lungo atteso dal suo popolo. Da questo momento vive per lui: «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). L’amore manifestato nella croce diviene la forza trainante della sua esistenza e della sua missione (2Cor 5,14).
Persecuzione, carcere e sofferenza sono accolte da entrambi come partecipazione alla passione del Cristo (1Tes 2,8: 2Cor 4,10), come immersione nella sua morte (Rom 6,4-6) perché una creatura nuova possa venire alla luce. Come scrive Paolo, in lui è possibile vivere tutto, persino la prigionia e la morte, come occasione per crescere verso la «piena maturità di Cristo» (Ef 4,13) ed imparare a condividere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5): lo svuotamento, l’incarnazione, l’umiltà, l’obbedienza, il farsi «tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9,22).
Insieme ci insegnano che soltanto dall’intimità con Gesù, nasce la missione. Da questa relazione tutto inizia e a questa relazione vogliono ricondurre le comunità generate dal loro annuncio. Credo che questo sia il loro segreto: raccontando la liberazione dal carcere (At 12,1-11) e guardando avvicinarsi la morte (2Tm 4,6-8), Pietro e Paolo ripetono anche a noi che la missione nasce, cresce e respira a tu per tu con una persona: Cristo. Missione è un lasciarsi conquistare da Qualcuno che vuole condividere i suoi amori: il Padre ed il fratello che attende la salvezza. Solo chi si sente afferrato dall’amore incondizionato e inspiegabile, dall’amore fedele fino alla follia della croce, sperimenta l’impulso di rendere presente ed operante quest’amore negli altri, in una vita che si rende dono, condivisione, presenza e consumazione fino al martirio.
Chiediamoci: dove ho incontrato Cristo? Come la mia vita è trasformata dal rapporto con Lui?