10 agosto: Domenica XIX – Tempo Ordinario C
Letture: Sap 18,6-9; Sal 32; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48
«…dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34).
La liturgia di oggi parla della fede. Non della fede entusiasta degli inizi, ma di quella piena di domande dei momenti bui in cui le tenebre sembrano soffocare la vita e la fede si trasforma in attesa. Come continuare a credere nel buio?
Il vangelo di oggi risponde proprio a questa domanda. Dopo aver chiesto ai discepoli di abbandonare una vita disorientata da preoccupazioni inutili (12,22-30), li invita a cercare una direzione nel porre al primo posto la ricerca del regno. Per convincere i discepoli a fidarsi, Gesù usa un’espressione colma di tenerezza: «Non temere piccolo gregge» (v. 31). Pur essendo una realtà insignificante, i discepoli possiedono tutto perché la loro vita è posta nell’unico luogo sicuro, le mani del Padre. Ora non resta altro che vivere restituendo, offrendo l’esistenza perché il regno possa essere incontrato e sperimentato da tutti.
Perché ciò accada, spiega Luca, occorre comprendere che non si può annunciare il regno senza viverne i valori, iniziando dalla condivisione dei beni (v. 33). Nella società di Luca, come purtroppo nella nostra, il valore della persona è dato dalla ricchezza. L’evangelista sfida questa mentalità affermando che l’identità non è data da ciò che si possiede ma da ciò che si condivide. Il concetto è martellato da Luca non solo attraverso l’esempio di Gesù (9,58) e della prima comunità (At 4,32-37; 5,3-7), ma anche con parabole (12,16-21; 16,19-31) e insegnamenti diretti (14,12-14; 18,22. 25);
In questo contesto, il v. 34 offre una specie di test per valutare le nostre priorità: «Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore». Luca invita, dunque, a porci una domanda: dov’è il tuo cuore? In concreto, dove investi il tuo tempo? Le tue energie? In Dio e nella costruzione del suo regno o nell’edificazione del tuo impero personale? Se tempo, energie, rapporti sono diretti alla costruzione del nostro regno (sicurezza, possesso, stima), il nostro cuore non appartiene a Dio. Posso illudermi di essere discepolo mentre continuo a servire soltanto me stesso.
Il testo prosegue spiegando la ragione per cui è urgente verificare le nostre priorità: l’assenza del Signore. Mentre è relativamente facile credere quando il Signore è presente, è molto più arduo continuare a seguirlo nella notte della sua assenza. Occorre «stringere le vesti ai fianchi» per essere pronti al servizio e custodire la lampada accesa per accogliere chi potrebbe tornare nel buio della notte (v. 35).
Nelle due parabole che seguono i discepoli sono paragonati a servi che attendono il ritorno del loro padrone. Come la venuta di un ladro, però, il suo ritorno sarà improvviso ed imprevisto: per questo occorre vigilare. La beatitudine riservata alla vigilanza contiene una promessa inaudita: il Signore stesso si stringerà le vesti ai fianchi, farà sedere i servi a tavola e passerà a servirli (v. 37). Vivere l’attesa trasforma, dunque, il servo in amico e ospite.
Il buio finirà, le tenebre si apriranno alla luce perché il Signore certamente verrà: nessuno, però, conosce l’ora e ad ognuno è chiesto di vivere attendendo. Non si tratta soltanto della grande attesa escatologica, ma delle diverse attese quotidiane: la risposta alla nostra preghiera; i tempi di maturazione personale e comunitari; il senso del dolore e della morte; il silenzio di Dio nella storia. Soltanto chi sa attendere può vivere il passato come grazia, il presente come opportunità e il futuro come dono.
Chiediamoci: come seguo nella notte dell’attesa?