Simone Weil scriveva che “ogni volta che facciamo le cose con cura distruggiamo il male che è in noi”. Fare le cose con cura, però, significa anche rispettare il tempo dell’attesa, senza desistere e senza farsi consumare. Lo ha raccontato lo scrittore torinese Fabio Geda, autore de “La casa dell’attesa”, in cui offre uno spaccato dell’attività della “casa de espera” di Chiulo, nella provincia del Cunene, in Angola, dove le donne che devono partorire vivono l’ultimo mese di gravidanza prima di spostarsi nell’ospedale che sta proprio lì accanto. E che, come la “casa de espera”, è gestito dal Cuamm – Medici con l’Africa. Geda ha parlato del suo libro nel Parco delle Terme di Levico, in dialogo con la libraia Lisa Orlandi, sabato 9 agosto, ospite della rassegna “Levico incontra gli autori”, organizzata dalla Piccola Libreria e dalla biblioteca comunale.
Tutto il libro ruota attorno al concetto di attesa. Come quella, molto lunga, del Paese dell’Africa sud-occidentale per l’indipendenza, che arrivò solo nel 1975, dopo quasi cinque secoli di dominio portoghese e due secoli in cui fu il canale principale da cui partiva la rotta degli schiavi. Per questo “La casa dell’attesa” si apre con la storia del medico e poeta Agostinho Neto, primo presidente dell’Angola libera. Che davvero libera lo fu per poco, perché visse 27 anni di guerra civile, come ha raccontato il reporter polacco Ryszard Kapuscinski in “Ancora un giorno”. Un conflitto che fece diventare il Paese lusofono una terra d’interesse anche per gli equilibri geopolitici della Guerra fredda.
L’incontro con Geda è stato organizzato grazie alla collaborazione della sezione trentina del Cuamm, che a Chulo è di casa: il responsabile, Carmelo Fanelli, è appena rientrato da un viaggio proprio dal Cunene. E anche Fabio Battisti e Cornelia Giovanella sono stati più e più volte a Chulo. “Ci ho lavorato per tre anni nell’ultimo decennio – ha raccontato Battisti -, facendo il ginecologo e l’ostetrico. Il libro di Fabio mi ha colpito in maniera particolare, perché descrive la situazione di Chulo in maniera estremamente veritiera. L’ho letto tutto d’un fiato”.

L’ospedale accanto alla “casa de espera”, ha ricordato Battisti, apparteneva alle Mediche missionarie di Maria, che nel 2000 lo donarono alla Diocesi, “che si trovò un ospedale da 210 posti senza avere nessun medico. A quel punto il vescovo chiese aiuto alla Diocesi di Padova, che interpellò il Cuamm: in questo modo siamo arrivati a Chiulo”.
L’attesa è al centro di tutto il volume, perché è anche croce e delizia del lavoro di chi fa cooperazione internazionale. E del lavoro di chi, come i medici del Cuamm, si prende cura dell’altro. Un messaggio importante in un tempo in cui l’attesa quasi si rifiuta. “Viviamo in una società molto prestazionale. Siamo abituati a darci da fare solo quando abbiamo la certezza del risultato. Se non abbiamo questa certezza, rischiamo di disamorarci del nostro impegno e di abbandonarlo”, ha riflettuto Geda. “Stare a Chiulo vuol dire saper stare in un tempo lungo – perché il Cuamm è lì da 25 anni – e osservare i risultati dopo molto tempo, o non vederli affatto. Quando la ‘casa de espera’ è stata aperta, il primo anno ha accolto sette donne. Adesso ce n’erano ottanta”.
L’attesa – che in portoghese si chiama “espera”, e che evoca la parola “speranza” – porta anche a fare le cose con maggiore cura. “Fare le cose con cura significa anche saper attraversare il tempo dell’attesa – ha affermato Geda -, un tema che, per chi fa cooperazione, può essere anche frustrante. Alla fine il libro è un invito a rallentare e ad imparare a fare le cose con cura, anche se non siamo medici, anche se non salviamo vite. Noi che raccontiamo storie ci prendiamo cura delle vite e delle storie, ma non le salviamo. Però raccontare una storia significa imparare a rallentare, chiudere il mondo fuori dalla porta e imparare a stare dentro la storia che hai scelto di raccontarla, per abitarla e per farsi abitare da quella storia”.