21 settembre: Domenica XXV – Tempo Ordinario C
Letture: Am 8,4-7; Sal 112; 1 Tm 2,1-8; Lc 16,1-13
«Non potete servire Dio e la ricchezza» (Lc 16,13)
Ad un primo sguardo le letture odierne affrontano il problema del rapporto con i beni. Ad un livello più profondo offrono tuttavia un’ulteriore risposta alla domanda che ci accompagna ormai da qualche settimana: cosa vuol dire essere discepoli?
Il vangelo risponde donandoci una parabola strana, in cui un amministratore disonesto viene lodato. Tale racconto sembra così poco “morale” da chiedersi che cosa ci faccia sulla bocca di Gesù! La risposta non è semplice ma proviamo a cercarla insieme.
La parabola inizia descrivendo una sequenza di eventi scaturita dalla scoperta di un’amministrazione disonesta: convocazione, accusa, richiesta del resoconto in vista del licenziamento. Rimane, dunque, all’amministratore soltanto un breve spazio di tempo che può impiegare a proprio vantaggio. Scartate le opzioni vangare e mendicare, egli trova la soluzione nell’intensificare a proprio vantaggio il comportamento scorretto, dato che ormai non ha più nulla da perdere. Sembra che Luca intenda proprio scandalizzare la propria udienza per scuoterla!
Sorprende la reazione del padrone. Mentre il lettore prevede uno scoppio d’ira, dato che dopo lo sperpero deve ora subire anche la contraffazione dei documenti, egli ― e Gesù con lui ― loda l’amministratore disonesto (v. 8). Mi sembra importante sottolineare che la lode non riguarda la disonestà, ma la scaltrezza, la capacità di usare il poco tempo a disposizione per assicurarsi un futuro. Per questo la frase: «I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (v. 8b), non può essere letta come l’invito a “farsi furbi” ma come una sollecitazione ad agire con la stessa rapidità, decisione e arguzia.
Mentre la prima applicazione della parabola sembra contenere un insegnamento escatologico, con i vv. 10-13 Luca cambia rotta verso un concetto a lui molto cara: l’uso dei beni. Nel tempo che ci separa dalla parusia, occorre saper utilizzare la «ricchezza disonesta» per farci «amici» che possano accoglierci nelle dimore eterne.
La definizione della ricchezza come “disonesta” sorprende: è difficile pensare che Luca parli dell’accumulo illegale dei beni! Occorre forse ricordare che per l’evangelista ogni ricchezza non condivisa è disonesta: l’unico utilizzo “giusto” dei beni è la solidarietà, la loro distribuzione ai poveri (12,33). Condividere i propri beni renderà amici dei poveri e permetterà di possedere anche la loro beatitudine: l’ingresso nelle dimore celesti.
La duplice domanda retorica presente nei vv. 10-11, rafforza il messaggio del v. 9. Il virus del possesso diviene un ostacolo nell’acquisire l’unica ricchezza che la morte non può inghiottire. Come potrà, infatti, il Padre condividere il suo Regno con chi non ha saputo utilizzare ciò che passa come strumento di amore e di promozione dell’altro? Per questo il detto conclusivo pone i discepoli, e noi con loro, davanti ad una scelta: «Non potete servire Dio e la ricchezza» (v. 13). Non possiamo seguire il Cristo con un cuore diviso. Come un servo non può vivere al servizio di due padroni così noi non possiamo servire la vera ricchezza, Dio, e la falsa sicurezza, il denaro. Luca ribadisce che per i credenti non c’è opzione possibile poiché solo Dio deve essere amato «con tutto il cuore» (10,27). Soltanto quest’appartenenza totale a Dio senza compromessi renderà possibile l’unico uso corretto della ricchezza: l’amore solidale.
Chiediamoci: chi o che cosa sto servendo?