«Ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano»

28 settembre: Domenica XXVI – Tempo Ordinario C

Letture: Am 6,1a. 4-7; Sal 145; 1 Tm 6,11-16; Lc 16,19-31

«…ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano» (Am 6,6).

Il tema della scorsa domenica continua nella liturgia di oggi. La prima lettura riporta un’aspra denuncia del profeta Amos contro la vita irresponsabile dei suoi contemporanei: vivono nell’opulenza ma sono indifferenti verso la sofferenza di Giuseppe, del fratello. La seconda lettura denuncia il pericolo dell’avarizia e la necessità di radicarsi in Cristo coltivando virtù fondamentali come giustizia, pietà, fede, carità, pazienza e mitezza. Il vangelo mostra l’esito drammatico di una vita colma di cose e di indifferenza.

Punto di partenza del racconto è il commento inserito dall’evangelista in 16,14: «I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui». La parabola è diretta, dunque, a coloro che, amando il denaro, si comportano come i farisei.

Il testo è diviso in due scene. La prima (vv. 19-21) contrasta la vita del ricco e di Lazzaro. Agli splendidi indumenti del primo si contrappongono le piaghe che rivestono il corpo del secondo, e ai succulenti banchetti quotidiani la situazione di chi contende con i cani le molliche usate dai ricchi per pulirsi le dita. Il povero, isolato da qualsiasi pietà umana, è avvicinato soltanto da animali impuri, dai cani (vv. 20-21). In questa scena desolata, il narratore inserisce un particolare importante: il mendicante ha un nome, Lazzaro, che significa «Dio viene in aiuto». Se esso appare una tragica beffa durante la sua esistenza, la morte segna il momento dell’agire benefico di Dio nei suoi confronti (v. 22). Il suo destino appare da subito diverso da quello del ricco di cui si afferma solamente che morì e fu sepolto.

Si apre così la seconda parte (vv. 22-30) segnata da un rovesciamento: Lazzaro è nella gioia e il ricco nei tormenti. L’appartenere al popolo dell’alleanza è, infatti, irrilevante ai fini della salvezza (cf. 16,24.25). L’uomo ricco non può entrare nel seno di Abramo perché non ha prodotto i frutti attesi dai figli di Abramo: non ha onorato Dio nella cura dell’altro (3,8-11).

Per questo le sue richieste non possono trovare ora una risposta: una distanza che il ricco avrebbe potuto facilmente superare durante la vita aprendo la sua porta e il suo cuore a Lazzaro, si è ormai trasformata in un fossato insuperabile. Non essendosi fatto amico dei poveri, le dimore eterne rimangono chiuse per lui (16,9). Lazzaro non può condividere acqua per combattere l’arsura e non può neppure recarsi dai suoi fratelli per “costringerli” alla conversione (16,27). Abramo ricorda che l’ingresso nel Regno non avviene grazie a fenomeni straordinari, come il ritorno dei morti e le visioni dell’oltretomba: la via della salvezza percorre la strada umile dell’ascolto della Legge e dell’obbedienza responsabile; dell’amore per Dio incarnato nell’attenzione verso gli ultimi.

Mi sembra, in fine, indicativo che in tutto il racconto non si oda la voce di Lazzaro: forse Gesù chiede di ascoltare il suo silenzio, di passare il confine eretto da consuetudini sociali per ascoltare il grido di tutti coloro che vivono ai margini. Forse chiede alla sua chiesa di dare anche a lui, e a tutti gli scartati della storia, la possibilità di parlare. Forse solo così, la comunità dei discepoli potrà continuare a proclamare la libertà ai prigionieri, la buona notizia ai poveri, annunciare agli oppressi la libertà e costruire un mondo finalmente diverso.

Chiediamoci: apro le mie porte al dolore e alla vita di ogni altro?

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