Bastava prestare la dovuta attenzione allo scambio di discorsi fra il presidente Mattarella e papa Leone XIV durante la visita di quest’ultimo al Quirinale per cogliere la centralità della situazione politica internazionale nelle riflessioni di due protagonisti di questa tormentata fase della nostra storia. Certo l’attenzione dei media in quel 14 ottobre era in gran parte assorbita dalle vicende di Gaza e, per quanto ci riguarda, dalle speculazioni sugli esiti della prima tornata di elezioni regionali d’autunno, ma si trattava di impressioni di superficie che non valutano l’impatto profondo che sono destinate ad avere per non pochi mesi e anni le trasformazioni che sono in corso a livello internazionale.
Trasformazioni che coinvolgono sia la sfera più propriamente degli equilibri fra gli stati, sia la sfera dei mutamenti nella cultura e nei rapporti sociali ed economici. Entrambi gli illustri oratori hanno avuto parole molto chiare e ispirate su entrambe le facce di questa strana medaglia. Ci si chiede se la politica di casa nostra abbia colto la portata decisiva di questi temi. In verità la maggior parte degli uomini politici, di destra come di sinistra, non sembra capace di una lettura di quanto sta accadendo, lettura che vada al di là di qualche formula di rito a seconda degli schieramenti. Pensano, non infondatamente, che della politica internazionale alla gente non importi molto, a parte quando ci sono avvenimenti così drammatici da risvegliare per un poco sentimenti di coinvolgimento sentimentale (e peraltro le manifestazioni molto partecipate interessano poi una minoranza di persone se rapportate alla popolazione complessiva).
Per questo le tensioni in materia di politica estera non sono oggetto di un confronto vero né nella coalizione di destra-centro al governo, né in quella variegata opposizione che si raggruppa sotto la sigla di “campo largo”. Sul primo versante sappiamo bene che la Lega non condivide, se non per costrizione nelle votazioni parlamentari, la linea a sostegno dell’Ucraina e le preoccupazioni per l’avventurismo della Russia di Putin e la conseguente necessità di spendere per adeguare i nostri sistemi di difesa: cose che pure sono un punto fermo nella politica della premier Meloni, che anzi, proprio per queste scelte, è in grado di avere un qualche ruolo nella politica europea.
Sul secondo versante va anche peggio. Sulla politica estera ci sono almeno quattro linee che convivono malamente: il vecchio arsenale para-pacifista e antiamericano dell’estrema sinistra, la confusa rincorsa dei sentimenti neutralisti delle piazze da parte del M5S, la tradizionale cultura di velleitaria terza forza che sopravvive con varie mutazioni genetiche in una parte del PD ed infine una spinta a schierarsi con la tradizione euro occidentale di un’altra componente di quel partito.
La differenza fra i due poli è che mentre nel destra-centro il fatto di essere al governo costringe a vedere quelle problematiche con l’ottica e la responsabilità di chi, comunque, deve gestire la macchina istituzionale dello Stato, nel campo largo non c’è una dinamica paragonabile. Detto brutalmente, significa che la politica estera della coalizione di governo la fanno Meloni e Tajani con gli staff di palazzo Chigi e della Farnesina, per cui Salvini fa quello che predica al vento per guadagnarsi spazi nel mondo della comunicazione, ma non incide.
Nel campo avverso nessuno ha responsabilità, perché l’idea che l’opposizione debba esprimere un credibile “governo ombra” ha avuto cittadinanza solo raramente: da quelle parti sono rimasti legati all’idea che opporsi al governo significhi criticarlo sempre e comunque sostenendo a priori che tutto poteva essere fatto molto, ma molto meglio. Ora il problema è che quando si arriverà alla fatidica prova delle elezioni politiche nazionali (secondo previsioni tarda primavera 2027) il paese avrà sopportato le conseguenze delle turbolenze internazionali: sia in termini economici per l’indisciplina dei mercati (coi relativi dazi), sia in termini di capacità di partecipare alle eventuali risorse che potrebbero essere messe in campo da alcuni fattori, come la ricostruzione a Gaza, quella in Ucraina se si arriverà mai a far finire la guerra di aggressione russa, i movimenti che si attiveranno per il ridisegnarsi, speriamo in forma di riequilibrio, delle dinamiche socio-economiche fra le varie aree geografiche.
Il governo in carica ha qualche chance di intestarsi una presenza attiva in quelle dinamiche, così come affronta il rischio di fallire nel farlo, ma se riesce ad essere abbastanza positivo e sufficientemente creativo si presenterà agli elettori con credenziali spendibili. L’opposizione, se continua sulla linea della mancanza di una visione realistica condivisa e se non trova alcuni leader capaci di dar prova di essere almeno in nuce degli “statisti”, giocherà svantaggiata. Sarebbe sperabile se ne rendesse conto perché lasciare tutto nelle mani solo di chi guida il governo non è mai una buona cosa se si vuole avere una vera democrazia decidente.