Suicidio medicalmente assistito, a breve l’esame del disegno di legge

Tra pochi giorni il disegno di legge d’iniziativa popolare sul suicidio medicalmente assistito approda all’esame della IV Commissione permanente del Consiglio provinciale di Trento. Lo anticipiamo con l’auspicio che il dibattito sia profondo (non sloganistico), partecipato (non accademico), rispettoso dei soggetti coinvolti (non ideologico). Lo richiedono la sofferenza dei malati in fase terminale, i dubbi di coscienza dei loro familiari e di molti operatori sanitari, la portata antropologica insita in ogni normativa che agisce sulla misteriosa soglia dell’esistenza umana. 

Come primo contributo di metodo condividiamo la contrarietà alla via dei disegni di legge “locali” imboccata dall’Associazione Luca Coscioni: nel suo tentativo dichiarato di “forzare” il Parlamento perché vari una legge ad hoc, essa ci pare una scorciatoia (praticabile, certo, per Costituzione) inopportuna e fuorviante, rispetto alla strada maestra che dovrebbe essere quella del confronto all’interno del Parlamento. È dentro le sue aule e le sue commissioni che gli eletti dal popolo italiano sono chiamati a incontrarsi (e scontrarsi, se necessario) per approdare ad un testo che sia espressione di una maggioranza il più possibile ampia.

La prima bozza del testo, che a Roma ha accorpato cinque diversi disegni di legge, rappresenta una sintesi di questa mediazione, necessaria anche se da più parti ritenuta ancora bisognosa di ulteriori modifiche. Sullo sfondo, il tentativo di salvare i principi dell’indisponibilità della vita umana e dell’autodeterminazione della persona in una sua effettiva condizione di libertà (si veda il documento del Comitato Etico della Fondazione Hospice Trentino).  

Dal dibattito in corso emergono vari punti controversi (si pensi al discusso ruolo di un Comitato di valutazione nazionale o dell’alternativo Centro di coordinamento nazionale) ma s’impone un aspetto che appare a molti evidente: per una normativa da applicare in tutto il territorio nazionale, da Vipiteno a Palermo, è decisivo che si trovi un livello statale in cui stabilire modalità di intervento, verifiche e controlli e a cui far convergere le strutture sanitarie del livello regionale e, nel nostro caso, provinciale. Altrimenti – lo si è detto quest’estate in un dibattito promosso dalle parrocchie di Fassa – “ci troviamo di fronte ad un Far West di leggi che crea incertezze e disuguaglianze”.

Una legge regionale è destinata a nascere, per il suo stesso ambito di applicazione, privata di questo necessario aggancio nazionale, con il rischio quindi di soluzioni tecniche sulle quali la stessa Corte Costituzionale potrebbe poi intervenire, magari azzerandole. Va osservato anche che il ddl trentino, che “ricopia” quello presentato e approvato in Toscana e in Sardegna, parte da un principio che sembra “orientato” in una precisa direzione, sul quale sarà difficile trovare una convergenza ampia.

Entrando nel merito (sul quale anche il nostro settimanale ha voluto già aprire il confronto quest’estate, vedi pag.10 del n.34) va considerato il monito venuto dalle sentenze della Corte Costituzionale 242 del 25 settembre 2019 e 135 del primo luglio 2024 (utili a sollecitare l’intervento parlamentare) che non vanno a sancire un diritto alla scelta del suicidio assistito, ma prevedono la non punibilità di questa pratica in alcune situazioni precise.  

È doveroso interrogarsi e confrontarsi sulla complessità di queste “circostanze”, che vanno dalla condizione specifica del malato al suo contesto ambientale e sanitario, alla definizione precisa di “sostegni vitali”, visto che alcuni vi comprendono ormai gli stessi farmaci. Nello stesso tempo va anche sempre riaffermato che prima del diritto alla scelta di essere aiutati a uccidersi dovrebbe essere previsto e garantito il dovere di essere aiutati a vivere. Di qui il forte appello (non solo della Chiesa italiana) all’impegno politico-amministrativo affinché si potenzino su tutto il territorio nazionale i servizi di Cure palliative (la legge 38/2010 è ancora inapplicata) e si faccia conoscere la possibilità delle Disposizioni Anticipate di Trattamento: della legge 219/2017 si è dimenticata la “pianificazione condivisa” tra paziente e il medico, che sarebbe un implicito richiamo al valore relazionale di ogni cura.  

Devono essere migliorati in tante regioni l’assistenza domiciliare e i servizi ai malati terminali o cronici: se non si insiste su questi aspetti della sanità pubblica, le domande di “aiuto a morire” saranno sempre più numerose. “L’interrogativo che, con tutta onestà, occorre porsi allora è questo – ha scritto Francesco Ognibene su Avvenire -: vogliamo che questa domanda di morte sia assecondata arrendendosi alla prospettiva del suicidio come possibilità tra le altre di concludere la vita, ed esigendo dallo Stato che affianchi alle terapie per chi chiede vita l’iniezione letale come ‘prestazione sanitaria’?  

Oppure restiamo saldi nella percezione del suicidio anche di una sola persona come sconfitta collettiva ed esigiamo da quello stesso Stato – ma anche dalla comunità, e da noi – che si faccia tutto quel che serve perché a quella iniezione non si arrivi mai?”. Merita approfondire il confronto, così come sono riusciti a fare un anno fa medici ed esperti cattolici e laici nella Consulta Scientifica del Cortile dei Gentili (vedi pag. 4), insistendo su punti comuni come il diritto universale alle cure, il rifiuto dell’accanimento terapeutico e il rifiuto dell’eutanasia. 

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