Dopo più di quindici anni di guerra civile, il 4 ottobre 1992 a Roma i contendenti, il Fronte di Liberazione del Mozambico (Frelimo) e la Renamo firmarono gli accordi di pace. Cosa ci insegna quell’esperienza di pacificazione e come potrebbe essere utilmente “esportata”? Vita Trentina lo ha chiesto all’ambasciatore mozambicano in Italia, Álvaro Santos, all’ambasciatore mozambicano presso la Santa Sede, Raúl Manuel Domingos, e al vicepresidente della Comunità di Sant’Egidio, che giovedì 23 ottobre a Trento, nell’aula magna del Collegio Arcivescovile, hanno dato vita a un fecondo momento di confronto promosso da Cam – Consorzio Associazioni con il Mozambico, Università di Trento e Comunità di Sant’Egidio per celebrare i 50 anni dell’indipendenza del Mozambico.
Un’occasione per ripercorrere il ruolo della cooperazione italiana in Mozambico, evidenziando gli errori da non ripetere – ad esempio, il protagonismo dei donatori, incapaci di ascoltare davvero i bisogni e rigidi nelle risposte -, ma anche di sottolineare storie di successo, come il progetto Mudar del Cam e gli interventi della Comunità di Sant’Egidio; facendo emergere anche la necessità di un cambio di rotta.
“Tutti i conflitti devono essere risolti con il dialogo”
Ambasciatore Álvaro Santos, come si arrivò a firmare la pace?
Grazie alla volontà degli stessi mozambicani, il Mozambico ha potuto avviare negoziati per raggiungere la pace, e questa pace è stata facilitata dai mediatori italiani della Comunità di Sant’Egidio, con il sostegno del governo italiano. Va sottolineato che accettare un mediatore in un conflitto richiede fiducia. Fiducia da parte della guerriglia, fiducia da parte del governo, dei mediatori stessi. Quindi, una mediazione disinteressata che rivela l’esistenza di una perfetta amicizia tra Mozambico e Italia, tra il popolo mozambicano e il popolo italiano. Questo è un dato di fatto; nessuno può cancellarlo.
Cosa insegna quell’esperienza?
La pace in Mozambico è un’eredità non solo per l’Africa, per il mondo in generale, che, sì, ogni conflitto, per quanto complicato, deve concludersi con il dialogo; dobbiamo dare priorità al dialogo. Noi in Mozambico diciamo: “Le persone, parlando, si capiscono”. In ogni conflitto che abbiamo oggi, che sia a Gaza, in Ucraina o altrove, il mondo dovrebbe dare priorità al dialogo ed evitare la guerra, perché la guerra uccide, la guerra distrugge, ma dopo aver ucciso e distrutto tutto, le persone finiscono per sedersi, o per firmare un accordo di resa o un accordo di pace. Ma prima di arrendersi, prima di distruggere, prima di fare un patto sui morti, è meglio parlare e porre fine al conflitto.
Per dialogare occorre riconoscere l’altro.
Riconoscendoci a vicenda, nel caso del Mozambico, riconosciamo innanzitutto che siamo tutti mozambicani. Amiamo il Mozambico. Unità nella diversità: sì, apparteniamo a razze diverse, religioni diverse, gruppi etnici diversi, ma viviamo tutti in quel Mozambico. Abbiamo un destino comune. Poiché siamo e abbiamo lo stesso destino, non vale la pena ucciderci a vicenda per differenze ideologiche, culturali. Diciamo “unità nella diversità”, guardando al Mozambico nella sua diversità, che è una grande ricchezza. Quindi, riconoscendo che, sì, ho un amico, un fratello, che è diverso da me, che la pensa diversamente, ma siamo tutti uniti dalla stessa bandiera, dallo stesso territorio.
Dialogo quanto mai necessario anche oggi, a cinquant’anni dall’indipendenza del Mozambico.
L’anno scorso abbiamo avuto elezioni molto difficili, c’è stata violenza dopo il voto. Qual è la via da seguire? È nel dialogo. I mozambicani sono attualmente impegnati in un dialogo nazionale inclusivo, per costruire il Mozambico che desiderano, per capire quali leggi devono essere modificate, cosa c’è che va e cosa c’è che non va, cosa c’è di buono che deve essere migliorato. Ma questo può essere raggiunto solo attraverso il dialogo tra i mozambicani, attraverso la negoziazione tra i mozambicani. Riconoscendo le differenze, ma anche trovando ciò che c’è in comune. Il denominatore comune. Ciò che ci unisce. Valorizzando e rafforzando ciò che ci unisce.
“La pace è difficile, ma possibile. E’ sempre frutto della ricerca della fiducia reciproca”
Ambasciatore Raúl Manuel Domingos, cosa ci insegna l’esperienza del Mozambico?
Ci insegna che fare la pace è difficile, ma possibile. Noi vivemmo dopo l’indipendenza molti anni di guerra, fino a quando comprendendo l’importanza della pace lasciammo da parte ciò che divideva e cominciammo a dare la priorità a quello che ci univa. Fu così avviato un processo negoziale che, passo dopo passo, permise di raggiungere la pace, dopo più di due anni di negoziato. Per questo possiamo affermare con cognizione di causa che la pace è difficile, ma possibile.
Si può arrivare alla pace con la forza? O serve riconoscere l’altro?
La pace è un frutto della ricerca della fiducia reciproca. Nel momento in cui diminuisce la sfiducia e aumenta invece la fiducia, poi la pace è raggiunta. La pace è il prodotto di una volontà politica, perché l’esperienza che noi abbiamo della guerra è che essa è “la continuazione della politica con altri mezzi”, come diceva von Clausewitz. Ma a partire dal momento in cui prendiamo coscienza che è possibile incontrare la pace, allora si avvia un processo di ricerca della fiducia reciproca, di mutue garanzie che alla fine fanno emergere la pace.
“Per superare la guerra ‘a pezzetti’, costruiamo la pace ‘a pezzetti'”
Prof. Moda, nel contesto geopolitico attuale segnato da conflitti – che papa Francesco chiamava “la guerra mondiale a pezzetti” – l’esperienza mozambicana cosa insegna circa la pace e il dialogo, anche dentro le istituzioni internazionali, che in questi ultimi anni sono state sostanzialmente esautorate?
C’è una storia di strada fatta insieme – la Chiesa cattolica, Sant’Egidio, il governo italiano e tutti quelli che hanno contribuito per trovare una strada per la pace in Mozambico. I mozambicani hanno ereditato questa esperienza comune fra la Chiesa, Sant’Egidio e il governo italiano non solo per godere della pace firmata nel 1992, ma anche per prendere questa esperienza come un alfabeto di pace per il mondo. Si può dire che la pace in Mozambico firmata 43 anni fa non è solo per il Mozambico, ma è stata – e continua ad essere – un esempio per l’Africa e per il mondo intero. Noi abbiamo inteso la firma dell’accordo di pace non come la conclusione di un processo, ma come l’inizio di un cammino con nuove tappe per costruire la pace “a pezzi”: se papa Francesco ci ha lasciato questa visione di un mondo che vive una “Terza guerra mondiale a pezzi”, allora anche la pace globale va costruita “a pezzi”.
E come si costruisce una pace “a pezzi”?
Si costruisce dal basso, a partire dai piccoli gesti di bene che ognuno può realizzare, che ogni parrocchia, ogni chiesa, ogni comunità, ogni scuola, ogni università può costruire, così come chi ha responsabilità di governo.

Qual è il primo passo?
E’ il riconoscimento dell’altro. Questa è stata una delle prime lezioni appresa quando si facevano le trattative a Roma. La difficoltà più grande che Matteo Zuppi (oggi cardinale), Andrea Riccardi e Mario Raffaelli (mediatori rispettivamente i primi due della Comunità di Sant’Egidio, il secondo del governo italiano, ndr) incontrarono era proprio questa: come costruire fiducia fra le due parte belligeranti, la Renamo e il governo. Lavorarono lungamente e penso che sia stato il momento più difficile della trattativa quello di far sì che ognuno riconoscesse l’altro come parte della stessa famiglia. Solo dopo questo passo fu possibile cominciare a provare a risolvere i problemi concreti. Ma se non ci riconosciamo come parte della stessa famiglia umana, è difficile costruire la pace. Quindi, riconoscersi è fondamentale. Prendiamo, ad esempio, Ucraini e Russi: devono riconoscere, prima di qualsiasi accordo, che sono parte dello stesso popolo, parlano la stessa lingua, vivono lo stesso continente. Ripeto, il riconoscimento è il passo fondamentale.
Riconoscersi, mantenere canali di dialogo: ciò contraddice quanti ritengono che sia necessario tagliare i ponti con la parte avversa, anche a livello ad esempio di relazioni accademica, tra università, scienziati, ricercatori. A Trento, ad esempio, è stato chiesto all’Università di interrompere determinate collaborazioni con le università israeliane. Lei che ne pensa?
Stiamo vivendo la globalizzazione. Chiudersi in noi stessi, precludere una possibilità di aiutare l’altro non è la strada giusta. Perché la guerra in Ucraina tocca l’Italia, tocca il Mozambico, tocca lo Zimbabwe, tocca tutti. Chiudersi davanti a un popolo che soffre, chiudersi alla cooperazione, alle possibilità già da anni aperte per aiutare gli altri vuol dire chiudersi in se stesso, e chi si chiude in sé stesso finisce per trovarsi prima o poi lui o lei in difficoltà. E’ opportuno che le istituzioni si aprano di più, non che si chiudano. Così da trovare le opportunità per dare un contributo alla pace. Ricordiamoci che la guerra mondiale comincia con le guerre locali.
Vuole provare a delineare una grammatica della pace, secondo lo specifico della Comunità di Sant’Egidio?
Cooperazione, che vuol dire solidarietà, aiutarci, riconoscere che l’altro che soffre fa parte di me stesso. E’ la base per cominciare a costruire la comunità: riconoscersi ed essere solidali gli uni con gli altri.