Una logica tutta partitica nella scelta delle candidature

Foto Facebook Enrico Letta

I cittadini probabilmente non ci capiscono molto di questa dinamica elettorale, naturalmente con l’eccezione di quelle componenti che si identificano in maniera pregiudiziale e passionale con qualcuna delle forze in campo. Molto dipende da una cervellotica legge elettorale ideata per mettere tutto nelle mani dei partiti che non solo sono arbitri nella componente proporzionale della composizione di “liste corte”, il che significa che decidono a priori chi potrà essere eletto e chi no, ma che con il finto meccanismo dei collegi uninominali legati però al voto di lista limitano molto, se non addirittura impediscono una scelta di candidati a prescindere dalle loro collocazioni all’interno delle coalizioni dominate dai grandi partiti.

Il risultato è il pastrocchio di fronte al quale ci troviamo. Su un versante una destra, dove ormai di “centro” non è più il caso di parlare, che fa perno su una pulsione a cambiare registro nella gestione del paese, perché una parte, sembra cospicua, dell’opinione pubblica vuole provare ad affrontare i cambiamenti con ricette di tipo avventuristico e tecnicamente “reazionario” (cioè di rifiuto di quel che sta cambiando). Sul versante opposto quel che resta di una tradizione riformatrice e progressista che però negli ultimi decenni si è imbastardita con l’utopismo massimalista che è del tutto speculare alla demagogia della destra. In mezzo un confuso mondo di politici che cercano di cavalcare il disagio di quanti vorrebbero sottrarsi alla tenaglia degli opposti radicalismi senza che però abbiano la capacità di far maturare un forte consenso attorno ad un progetto che sia qualcosa di più solido dell’opposizione confusa ai radicalismi (facendo così crescere l’impressione che si tratti più di posizionamenti per carriere personali che non di progettualità per il futuro). Si sarà notato che tutto è dominato dal professionismo politico. Nel dibattito di queste settimane non si vedono che personaggi di quel mondo alla disperata ricerca di palcoscenici, preferibilmente mediatici, per conquistarsi spazi. Il ricorso a personalità prese dalla cosiddetta “società civile” è ridotto a presentare in quella veste uomini e donne che stanno in quelle formazioni che un tempo si sarebbero definite di collateralismo, il che non rompe minimamente il dominio del sistema degli apparati di partito e delle loro caotiche correnti.

In questo quadro la vicenda del confronto fra il PD e Calenda è emblematica. Da un lato ci sono Letta e il suo gruppo dirigente, sempre schiavi del complesso di farsi dire dagli altri cosa è di sinistra. Che le idee dell’estrema sinistra, quelle di certo ambientalismo di maniera, siano qualcosa a cui non ci si può contrapporre altrimenti non si sarebbe più “di sinistra” è altamente discutibile, anzi la storia starebbe lì a dimostrare che quando ci si è mossi così è finita male. Dal lato opposto c’è Calenda e il suo movimento che in sostanza chiede al PD di uscire da quel complesso dell’ammucchiata necessaria in nome della lotta alla destra, ma non è grado di presentare un progetto realmente articolato al di là della ovvia contrapposizione alle lusinghe delle bandierine del massimalismo.

In un contesto che non vede disponibili né spazi temporali per un approfondito dibattito (ma qui buona parte della colpa è nella passata ostinazione del PD a non uscire dalla prospettiva dell’asse con M5S), né possibilità di sottrarsi al perverso gioco imposto da una legge elettorale che favorisce oggettivamente la destra, la soluzione possibile sarebbe quella di prendere per le corna il toro dei collegi uninominali. Si poteva decidere che in essi si presentassero solo candidature che erano suffragate dall’accordo maggioritario fra tutte le forze apparentate e che non rispondessero ad alcuna logica correntizia riferentesi ai vari partiti. Per quelle altre candidature sarebbe restato tutto lo spazio, ampio perché copre i due terzi dei posti disponibili, delle liste nel proporzionale. In sé una prospettiva del genere rappresenterebbe una sfida anche per la coalizione della destra, che è lontana dal muoversi in un’ottica simile.

Quasi per miracolo alla fine Calenda è riuscito a convincere Letta della inevitabilità di una intesa che di fatto rompesse col massimalismo, non solo esterno, ma anche soprattutto interno al PD. Hanno senza dubbio pesato le considerazioni sulla pericolosità di rompere un fronte elettorale credibile fra un riformismo centrista ed uno di sinistra, a cui i vari cespuglietti non portavano che un apporto minimo e per di più confuso. Adesso si vedrà se gli sconfitti, cioè i massimalisti, si arrenderanno all’evidenza non solo per la campagna elettorale, ma soprattutto per dopo. I precedenti dell’Ulivo e dell’Unione promossi da Prodi pesano come nubi minacciose, ma speriamo che la storia abbia insegnato qualcosa.

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