Il viaggio poetico di un profeta inquieto

Poeta e religioso coerente, sempre attento agli ultimi e in lotta contro disuguaglianze e ingiustizie: questo fu David Maria Turoldo (Coderno, 1916 – Milano, 1992) di cui ricorreva nei giorni scorsi il centenario della nascita.

Padre David nacque in un minuscolo paese di un Friuli allora poverissimo, il 22 novembre 1916. Personalità sanguigna e franca, figura intessuta di tenerezza e di polemica, voce controcorrente e sacerdote sempre attento agli umili e agli emarginati, Turoldo ha lasciato un segno profondo nella cultura e nella vita pubblica italiana – per lui mai separate: è sempre stato un uomo tra gli altri, mai un accademico.

La sua opera poetica, da Io non ho mani (1948) a Gli occhi miei lo vedranno (1952, con introduzione di Giuseppe Ungaretti) fino ai Canti ultimi del 1991 e alle postume Mie notti con Qohelet, lo ha fatto conoscere come l'unico grande poeta italiano del XX secolo che ha posto come fondamento dei suoi versi il “Grande codice” della Bibbia.

La sua poesia esprime l'inquietudine e gli interrogativi dell'uomo in cerca della spiritualità e di Dio (“un Dio che pena / nel cuore dell'uomo”) in un secolo che ha visto progressivamente ma irresistibilmente l'affermarsi del benessere materiale e del superfluo. In un viaggio poetico durato un'intera vita, i due temi principali e ricorrenti nei suoi versi sono il rapporto con Dio – in un dialogo intenso, talvolta irto e sempre diretto – e le sorti dell'umanità, in particolare dei poveri – un tema oggi spesso trattato da Papa Francesco. Ne è esempio (da Io non ho mani) questa poesia: “C'è una povera in via Ciovasso / che non può più camminare, / e dorme entro giornali / nessuno di quelli che stanno / di sopra / ha tempo di scendere a salutare. // Per lei è di troppo / un po' di scatole per guanciale / e stare / nel cuore di Milano”.

Turoldo non fu solo un uomo di lettere: fu anche un grande “uomo della comunicazione”, dal pulpito, dai libri, dai giornali e periodici e negli ultimi anni della sua vita anche dai canali radiofonici e televisivi. Ha scritto di lui Giorgio Lago, storico direttore del “Gazzettino” che lo ebbe tra i suoi collaboratori: “Era sempre disponibile, sapeva parlare, e aveva una grande capacità di suscitare interrogativi. Un grande comunicatore, che usava tutti gli argomenti della comunicazione, compresa la poesia… io lo chiamavo il mio Isaia, il mio Isaia privato. Lo consideravo tale, una voce passata per sbaglio in questo secolo senza profeti, oppure di profeti disarmati oppure di profeti dell'orrore come il nazismo e lo stalinismo”.

Oggi, in una società sempre più tesa alla superficialità e al predominio dell'immagine, padre David ci manca: per i suoi inviti a riflettere e a metterci in discussione, a non restare mai fermi in noi stessi o seduti sugli allori, a ricercare sempre una congiunzione tra l'esigenza di spiritualità e quella di solidarietà con chi vive ai confini della dignità umana e sociale.

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