“Quella è la nostra terra!”

Ha il volto segnato dal dolore Yomaira, rimasta vedova a soli 30 anni e da troppi mesi lontana dai suoi figli. Occhi neri e profondi quelli di Enrique ed un’espressione di tenacia che conferma quando comincia il suo racconto. “Siamo contadini di origini afrodiscendenti provenienti dalle valli colombiane del Curvaradò e Jiguamiando, nella regione del Chocò al confine con il Panama. Dal 1996 siamo in fuga, costretti ad abbandonare la nostra terra a causa della violenza, dei massacri e delle persecuzioni perpetrate dai gruppi paramilitari con la scusa di combattere la guerriglia”, raccontano ospiti degli studi di radio Trentino inBlu.

Secondo le informazioni raccolte dalla Commissione interecclesiale di Giustizia e Pace negli ultimi 20 anni si contano 3 mila sfollati, 142 omicidi e numerose desapariciones solo in questa regione. Uno spopolamento di massa forzato “portato avanti con ogni mezzo, sparatorie, squartamenti, uccisioni mirate, bombardamenti – continua Enrique –, contadini scacciati per interessi di grossi latifondisti che si saldano con il potere politico, militare e quello corruttore del narcotraffico”. Dopo dieci anni di sfollamento, chi era sopravvissuto al massacro è ritornato trovando la propria terra occupata da altri. Fu allora chiaro che “le operazioni militari – interviene Yomaira – erano state non contro la guerriglia, ma per promuovere le monocolture di palma africana per produrre biodiesel, le coltivazioni di banana e per progetti di allevamento estensivo, per la produzione di energia elettrica e per l’estrazione di oro”.

Anche Enrique e Yomaira hanno fatto ritorno nella zona del Curvaradò in cerca di una vita dignitosa per le loro famiglie. “Ci siamo subito resi conto che il primo passo per recuperare la nostra terra – spiega Enrique – era quello di cominciare a lavorarla, unendoci al processo di resistenza nonviolenta avviato nelle comunità”. Per resistere vengono create Zone Umanitarie e Zone di Biodiversità riconosciute dal diritto internazionale umanitario. La Commissione interecclesiale di Giustizia e pace colombiana e vari organismi di difesa dei diritti umani come le Pbi, le Brigate internazionali di pace, e Operazione Colomba accompagnano questo percorso. “In queste Zone – precisa Enrique – è proibito l’ingresso di gruppi armati siano essi legali che illegali, sono luoghi esclusivi della popolazione civile. Siamo riusciti a denunciare davanti alla Corte interamericana dei diritti umani e alla Corte costituzionale colombiana gli sfratti, le aggressioni, le uccisioni e a dimostrare che la proprietà della terra ci appartiene”. Nonostante varie sentenze abbiano ordinato la restituzione delle terre, i latifondisti collusi con i paramilitari rimangono, non si fermano le aggressioni e le uccisioni dei leader dei movimenti nonviolenti, senza riguardo per le misure di protezione adottate. “Mio marito e mio fratello – racconta con sofferenza Yomaira – hanno pagato con la vita la difesa del territorio. E anch’io, come altri membri della comunità, ho subito minacce di morte quando un anno fa ho denunciato un imprenditore e ho chiesto che venisse riaperto il caso relativo all’omicidio di mio marito”. Fino ad oggi Yomaira e Enrique hanno subito sette tentativi di omicidio, le loro terre sono state saccheggiate, le loro famiglie minacciate, sono stati isolati e accusati falsamente di far parte della guerriglia. Una persecuzione sistematica sia fisica sia psicologica che li ha costretti ha lasciare il Paese e ad andare in esilio sotto protezione come unica possibilità di sopravvivenza.

Rifugiati in Europa continuano ad affermare il loro diritto alla verità e alla giustizia. “Il nostro desiderio – dicono con fermezza – è di conservare il territorio ricco di flora e fauna per le generazioni future, una terra riconosciuta agli afro-meticci dalla legge 70 del 1993, e di poter coltivare le sementi locali tramandate dai nostri padri, senza l’uso di prodotti chimici. Chiediamo che sia fatta giustizia contro una politica di sviluppo che ha permesso alle imprese di usurpare le nostre terre e inquinare i nostri fiumi a beneficio degli investimenti esteri e del mercato globale. Riponiamo la nostra speranza non nei negoziati di pace – concludono -, ma nel popolo colombiano organizzato nelle compas, 110 comunità capaci di costruire un’alternativa nonviolenta per rivendicare il diritto alla terra”.

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