Quando un referendum non risolve problemi, ma li crea

La prima pagina del quotidiano “Avvenire” di martedì 10 giugno

La vicenda referendaria si è chiusa proprio male, non importa quel che leggiamo in una miriade di commenti interessati. Si è chiusa male perché ha dato un ulteriore colpo alla credibilità di un delicato strumento di democrazia diretta, perché ha rivelato una volta di più una politica interessata più ad apparire, ovvero a tenere la scena, che a costruire, perché impedirà che si affrontino seriamente alcuni problemi veri seppelliti sotto le bandierine sventolate con incoscienza dai promotori.

Il fatto che un terzo appena degli elettori si faccia coinvolgere da un appello alle urne non si spiega solo con un trend generale di disaffezione a partecipare, ma in questo caso ha la sua radice ben di più nella vacuità dei quattro quesiti sulle leggi sul lavoro (sulla cittadinanza torniamo fra poco). La storiella che si trattasse di pronunciarsi contro la precarietà e la facilità di licenziare poteva essere sostenuta solo da chi viaggia dentro la bolla dello scontro dei massimalisti di sinistra con quel po’ di riformismo che si era tentato di mettere in atto. Un economista certo non ascrivibile alle destre come Tito Boeri ha dimostrato che non c’è traccia di quella catastrofe nei rapporti di lavoro propagandata nelle piazze e nei talk show da Landini e soci. Quel che non funziona, e si tratta di fenomeni preoccupanti come è nel caso dei bassi salari, non è imputabile al Jobs Act di Renzi, né poteva essere modificato dall’approvazione dell’abrogazione di qualche paragrafo di quello.

La grande maggioranza della gente ha capito che la materia del contendere era tutta ideologica ed ha disertato le urne, come era possibile, legale e persino legittimo fare. Che poi un numero consistente di persone, più di 12 milioni, abbia invece deciso di accettare l’invito dei massimalisti a puntare al gioco della spallata contro la situazione attuale è un fatto da considerare con attenzione, ma non per questo tale da inviare un messaggio incoraggiante per la politica futura.

E qui veniamo al secondo punto: non si può fare politica puntando sull’agitazione e sul vecchio movimentismo. Questa è, ci sia consentito dirlo con franchezza, una eredità che ci portiamo dietro dagli anni Sessanta del secolo scorso e che non sta producendo buoni frutti. L’agitazione può avere momenti liberatori di fronte a catastrofi che indignano e non si sa come impedire. Vale, come si è visto per Gaza, ma poi si finge di considerare marginale il fatto che una quota sembra non piccola del popolo che ha sfilato a Roma in modo massiccio, se ne sia andata quando dal palco hanno cominciato a parlare i politici promotori della manifestazione: non lo hanno rilevato giornalisti nemici della sinistra, ma Botteri e Sardoni durante la trasmissione di Gramellini su La7. Senza enfatizzare troppo, qualcosa vorrà pur dire.

La politica spettacolo non è una invenzione recente, né riguarda solo le opposizioni, anzi la maggioranza di destra-centro quanto a populismo può dar lezioni a tutti, ma questo non significa che sia una bella cosa. Proprio la vicenda dei referendum mostra che se si rimane chiusi nei propri recinti cosiddetti identitari non si costruisce quasi nulla: è una illusione, anzi una colpevole bugia, sostenere che l’avere raccolto sui quesiti un numero di voti eguale a quello che ha portato al governo la destra-centro significhi un avviso di sfratto a Giorgia Meloni.

Così di riforme non se ne fanno, perché per raggiungere dei risultati bisogna negoziare e costruire consensi larghi, come sa chiunque abbia studiato un po’ di storia politica. Coi colpi, anzi coi colpetti di mano si fa audience, ma non si raccolgono risultati.

Purtroppo di questo infernale meccanismo è rimasto vittima l’unico quesito sensato che era quello che puntava a snellire il procedimento perché gli immigrati regolari potessero accedere alla cittadinanza. Il vincolo del meccanismo “abrogativo” che condiziona il referendum ha costretto ad una proposta secca e poco articolata che ha finito per spaventare anche una parte di coloro che sono andati a votare. Questo è drammatico, perché più che sottolineare la non validità per mancanza del quorum i populismi che non vogliono una legislazione capace di favorire l’integrazione adesso avranno buon gioco a far notare che addirittura un 40% circa dei votanti, si suppone di sinistra, si sono espressi contro l’approvazione del quesito. Una occasione anche troppo ghiotta per le destre per fermare le riflessioni anche caute per esempio sul cosiddetto ius scholae e per impedire che si affrontino i problemi.

Sì, la vicenda referendaria si è chiusa proprio male. Speriamo che almeno alcuni, su tutti i fronti della dialettica politica, prendano l’occasione per dire basta a questo andazzo inutilmente massimalista (a sinistra come a destra).

vitaTrentina

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