Drammi epocali e risse da cortile

Dire che il mondo brucia è usare una abusata immagine retorica, ma fotografa molto bene la realtà. L’avvitarsi su sé stesse delle politiche israeliane a Gaza e di quelle russe in Ucraina supera ormai anche le più pessimistiche previsioni: Netanyahu e Putin sono più che mai convinti di poter spingere il loro gioco al massacro fino alle estreme conseguenze.
Non sembrano esserci nel mondo forze in grado di bloccare la corsa al baratro finale che è davanti ai nostri occhi. Anche se finisse con la momentanea vittoria completa dei due autocrati che si sentono destinati a scrivere una nuova storia, sarà solo la tregua momentanea di un conflitto generalizzato che è stato acceso e che riprenderà appena possibile. Per la semplice ragione che le guerre di distruzione lasciano dietro di sé la voglia di rivincita. La Seconda guerra mondiale è stata una parziale eccezione, perché, almeno in una parte (l’area cosiddetta occidentale), il vincitore, cioè gli USA, scelse di appoggiare la ricostruzione circoscrivendo la sua espansione.
Nulla di simile è intuibile nella strategia né di Netanyahu, né di Putin, che gli avversari li vogliono cancellare, e non solo come vertici, ma come società. È questa la grande incognita che preoccupa gli analisti e gli uomini politici che ragionano in termini di realismo storico (che, non lo si dimentichi, non è mai cinismo), mentre impazzano gli apocalittici di vario conio, quelli che vorrebbero soluzioni radicali e un quadro internazionale organizzato secondo principi utopistici.
L’Europa e l’Italia si misurano con questa deriva. La prima si rende conto che dovrebbe trovare le risorse per consentire la resistenza prima e la ricostruzione poi degli attuali teatri di guerra. Le risorse militari sono scarse e abbastanza inadeguate, e infatti i due governi che hanno scelto la politica del caos e della forza le irridono e le snobbano. Quelle finanziarie non sono adeguate e soprattutto sono problematiche da spendere, perché l’Europa ha bisogno di molti investimenti per recuperare i ritardi del suo sviluppo (come una volta di più ha ricordato Draghi) e perché le opinioni pubbliche dei suoi Stati membri non vogliono rivedere il quadro di distribuzione degli impieghi di finanza pubblica nella paura che ciò significhi ridurre il finanziamento del benessere. Senza dimenticare, aggiungiamo, che comprensibilmente la gente non vuole ammettere che si possa andare verso un’età di guerre devastanti, per cui meglio lasciar credere che non sono possibili e che solo i malvagi guerrafondai le vorrebbero.
Sono dinamiche che riscontriamo in giro per il mondo e che alimentano le pulsioni al radicalismo, perché si sa che ci si illude spesso che quando le cose sono complicate si possano risolvere solo col famoso taglio netto: o di qua, o di là. Non stupisce certo che il nostro Paese non faccia eccezione. In verità non si vede perché dovrebbe farla: al contrario di quel che si predica, non siamo affatto una società stabilizzata, ma percorsa da molte tensioni e diseguaglianze, che non producono la rivoluzione sociale predicata o temuta dai retori politici, ma una insoddisfazione generalizzata, una mancanza di strumenti per uscire da essa, e dunque instabilità sociale e culturale.
La politica italiana offre il quadro, che a noi pare deprimente, della mancanza di una qualche forma di leadership che sappia risvegliare e coagulare le forze della nazione. Non offrono un surrogato le invocazioni al massimalismo, la radicalizzazione delle posizioni, la continua ricerca di più capri espiatori da additare al pubblico disprezzo. Tutte tecniche a cui si ricorre da destra come da sinistra, anzi in ciascun campo facendo a gara a competere fra le varie componenti nel mostrarsi più decise degli alleati nel ricorrere a questi mezzi.
Poi, se si lasciano da parte le intemerate per i talk show e per i media in generale, vediamo più che altro risse da cortile: per spartirsi le candidature nelle competizioni elettorali, per far prevalere la propria fazione sulle altre del proprio partito, per assicurarsi la fedeltà di ogni possibile lobby a cui si è disposti a corrispondere quanto chiede senza porsi il problema dell’interesse generale.
Fra due settimane si voterà per le regionali nelle Marche, poi in Calabria, Toscana, Valle d’Aosta, Puglia e Veneto. Gran discussione sui candidati governatori, attenzione più che modesta, vorremmo dire inesistente, sui nodi delle politiche regionali (che non sono le bandierine sventolate come tali). Il tutto mentre sembra che dietro le quinte si lavori per prepararsi alle elezioni nazionali fra due anni, a cominciare da una nuova legge elettorale (l’ennesimo esperimento degli apprendisti stregoni).
Ma è da tutto questo che potrà venire per la gente un punto di riferimento di fronte alla grande crisi che si prepara nel mondo?

vitaTrentina

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