Il governo e il partito

Gentiloni ha battuto un colpo: scegliendo una location renziana (un programma TV con Pippo Baudo) ha fatto sapere che conta di arrivare a fine legislatura. Tutti i big del suo partito, per ragioni diverse, hanno confermato che così dovrà essere. Naturalmente non vuol dire molto, perché la tenuta del governo dipende da quella della sua maggioranza parlamentare a cui davvero non mancano i problemi, ma è credibile che nel contesto attuale non ci sia gran fretta di ricorrere alle urne.

La ragione superficiale è che sarebbe necessaria una legge elettorale degna di questo nome e non due mozziconi di normative derivanti dagli interventi della Consulta. Quanto meno andrebbero armonizzate le disposizioni che regolano le urne per la Camera e quelle per il Senato. La ragione profonda è che tutti sono consapevoli che una tornata elettorale si svolgerebbe in assenza di una qualsiasi stabilizzazione dell’opinione pubblica. Attualmente il panorama è contraddistinto da una kermesse politico-mediatico-giudiziaria in cui è difficile raccapezzarsi, da una feroce guerra fra fazioni all’interno del partito chiave della maggioranza (con ripercussioni poi su tutto il sistema politico), da un rilancio delle presenze populiste con il non trascurabile ritorno al centro della scena di un M5S che si è lasciato alle spalle i guai della giunta Raggi.

In questo contesto si fa fatica ad immaginare che dalle urne esca qualcosa di buono. Di conseguenza, anche senza dirlo, la maggior parte delle forze politiche opta per quella che durante la prima repubblica si chiamava una fase di decantazione. I gruppi dirigenti della società spingono abbastanza esplicitamente per lasciar lavorare il governo Gentiloni: non eccelso in tutte le componenti, ma in grado di presidiare in maniera soddisfacente i settori chiave a cominciare da quello economico. Padoan ha credito, alcuni dei suoi vice e sottosegretari anche, e sono cose che contano visto quel che si prepara in Europa. Certo è una fase molto delicata in cui si discute nelle cancellerie il ridisegno della UE e la prospettiva dell’Unione a più velocità guadagna terreno, ma è anche un momento non privo di rischi, sicché avere un governo più forte non sarebbe male. Ma, come si dice, il meglio è nemico del bene.

Dunque al momento la strategia che sembra dominante è quella di blindare il governo tenendolo fuori della contesa interna al PD. Persino gli scissionisti del nuovo MDP sono sostanzialmente su questa linea: del resto il loro problema, o meglio la loro ossessione è far fuori Renzi e si tratta di un’operazione che diventerebbe molto difficile se dovessero fare i conti con una crisi di governo in cui non saprebbero come muoversi.

Il PD si trova però in una difficoltà oggettiva che non ci pare venga percepita. Esso con Renzi ha portato a compimento una evoluzione iniziata da lontano: è diventato un partito di governo, non più un partito ideologico di militanza. Raccoglie voti se convince un elettorato di essere la forza migliore per risolvere i problemi del paese, non sulla base di una identificazione come forza “di sinistra” o quant’altro. Ovviamente non mancano i nostalgici che non si arrendono al tramonto del mondo di ieri, ma appunto di nostalgici si tratta, cioè di numeri contenuti.

Renzi è ancora il leader che più di tutti ha capito il cambiamento di orizzonte e che ha maggiori doti di fantasia e creatività per adeguarsi ad esso. Solo che ora corre azzoppato dai postumi di due brutte cadute. La prima è l’esito del referendum, non in sé, ma nella sua incapacità di averne difeso poi le ragioni, mostrando che lui per primo aveva ridotto tutto ad una questione sulla sua persona. La seconda è il pastrocchio dell’affare Consip che mostra il limite del renzismo nella selezione di compagni e alleati e la sua sottovalutazione della melmosità del sistema italiano ai suoi vertici.

Al Lingotto Renzi proverà a ritrovare l’estro creativo e persino a chiamare attorno a sé un po’ di “testimonial” che dimostrino che sa aggregare anche fuori dei soliti giri. I suoi competitori interni non sono all’altezza della situazione, perché Orlando è un pur apprezzabile uomo di apparato ed Emiliano è un populista post Tangentopoli. Hanno però dalla loro la possibilità di denunciare le carenze caratteriali dell’ex segretario, alcuni scivoloni che non ha saputo evitare, ma soprattutto la scarsa simpatia che un corpo ancora molto burocratico come è il PD ha per qualsiasi leader che voglia imbrigliare i feudatari interni.

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