“Chi accoglie voi accoglie me”

2 Re 4,8-11.14-16a;

Sal 88;

Rm 6,3-4.8-11;

Mt 10,37-42

«È una persona accogliente» ci capita di dire di qualcuno, per indicare la sua capacità di comprensione e la sua disponibilità. Fra le tante qualità, che possiamo riconoscere nelle persone, sicuramente primeggia l’accoglienza. È un tratto inconfondibile, che rivela l’intenzione sincera di fare spazio agli altri nel proprio cuore.

In realtà, tutti noi avvertiamo il bisogno di aprirci al prossimo e, nel contempo, siamo alla ricerca di qualcuno disposto a farsi carico della nostra vita. Ciò avviene, in primo luogo, nella nostra famiglia d’origine, dove la nostra serenità dipende dal sentirci accettati dai genitori; in secondo luogo, nel nucleo familiare, che a nostra volta formiamo come sposi e come genitori: accogliamo la persona scelta per la vita e le creature, che Dio ci ha donato, quando il loro mondo diventa il nostro in un legame indissolubile.

Certo, questo stile accogliente non si limita soltanto alla sfera affettiva e familiare, ma va oltre, si estende a chi si affaccia alla porta della nostra vita per chiederci briciole di attenzione, di disponibilità e di ascolto.

Nella prima lettura dal secondo libro dei Re ci viene descritto un bell’esempio di ospitalità accogliente: il profeta Eliseo, passando per Sunem, fu trattenuto a mangiare da un’“illustre donna…, in seguito, tutte le volte che passava si fermava a mangiare da lei”. Il motivo di tanta generosità consisteva nell’avvertire la sua singolarità, infatti la donna diceva al marito: «Io so che è un uomo di Dio». Con la perspicacia tipica delle donne, aveva colto nel segno: nel profeta Eliseo vedeva quella traccia di santità, quell’impronta divina presente in ogni persona creata a immagine e somiglianza di Dio. È questo il primo atteggiamento da assumere per essere accoglienti: riconoscere nell’altro i lineamenti del Signore, che ci cerca, ci chiede attenzione, mendica un piatto d'amorevolezza e un pane fragrante di generosità.

È davvero “illustre” questa donna, è facoltosa d’amore, d’intelligenza e di creatività, capisce di dover fare di più: bisognava ricavare una piccola stanza per il profeta, cosicché si sentisse a suo agio, come a casa propria.

Anche noi dovremmo comprendere che non facciamo mai abbastanza, quando si tratta di accogliere un ospite. In genere, parlando di ospiti ci riferiamo a parenti e amici, a cui apriamo le porte di casa, oppure pensiamo ai turisti, che affollano i nostri luoghi di villeggiatura, assicurandoci buoni margini di guadagno. È facile essere accoglienti con chi amiamo o con chi ci garantisce un tornaconto, difficile è condividere anche solo pochi spiccioli con chi ci chiede un pasto e un tetto.

Forse Dio in questo nostro tempo così problematico ci sta mettendo alla prova, vuole vagliare la nostra umanità e la nostra fede, visitandoci in quella marea di migranti che arrivano dalle coste africane del Mediterraneo. Il Signore assume le sembianze di un sopravvissuto, che ne ha passate tante, rischiando di morire di stenti sulle piste battute fra le dune del deserto; il suo corpo è sfigurato dalle torture subite nei campi libici; per poco non affogava quando il suo gommone si è rovesciato; è infine arrivato con l’anima spenta fin sull’uscio di casa nostra. L’abbiamo guardato male, non ci siamo nemmeno accorti di averlo già incontrato domenica a Messa, di aver ascoltato con “devozione” la sua parola e di esserci cibati di lui, di un morto di fame.

«Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato», ci ricorda Gesù nel vangelo. Sono parole che il Signore oggi rivolge in primo luogo ai poveri del mondo, autentici e forse unici uomini e donne di Dio, inedito sacramento della sua presenza reale. Hanno volti contraffatti da sofferenze indicibili; hanno mani che si allungano per stringerci e trattenerci, costringendoci a farci carico dei loro drammi; hanno bocche che si aprono per ricevere quel cibo che i nostri sistemi economici hanno loro negato. Non hanno niente o forse tutto: Dio che continua a farsi carne nella loro carne. Grazie a Lui fanno miracoli: fecondano il nostro cuore, liberandolo dalla sterilità dell’egoismo, come il grembo dell’illustre donna di Sunem, reso capace di generare una nuova vita. «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia», le dice Eliseo, facendo corrispondere al dono dell’accoglienza il prodigio della fecondità.

Lasciamo che il miracolo avvenga, doniamo “anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli…” e il Signore spargerà in noi il suo seme e il deserto inospitale del nostro cuore diventerà un’oasi di accoglienza fraterna.

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