Dall’io al noi

Qo 1,2; 2,21-23

Salmo 89 (90)

Col 3,1-5.9-11

Lc 12,13-21

So vivere i beni che possiedo come un dono per crescere da persona? Le nostre comunità sanno attuare strategie in grado di mettere in circolo i beni che possiedono?

«Un ricco sembra una cassaforte elastica che racchiude tutta la ricchezza fatta di oggetti di valore: Ma andare oltre il necessario significa insinuarsi nella dimensione del superfluo, dell’inutile, favorendo una percezione irreale di sé e del mondo. Le ricchezze esagerate hanno bisogno di puntare a un futuro di eternità e a una percezione di sé onnipotente. Un vero e proprio delirio di grandezza». Scrive così uno dei maggiori psichiatri italiani, Vittorino Andreoli, in un interessante libro intitolato: “Homo stupidus stupidus”. Sono parole che richiamano l’atteggiamento di molte donne e molti uomini del nostro tempo, per il quale la parola più importante, l’unica che merita di essere pronunciata (e venerata) è un aggettivo possessivo: mio. Il proprio ombelico è diventato il centro dell’universo, per cui tutto è valutato a partire da quel ristretto angolo di visuale. Le persone, le cose, il lavoro, persino le virtù hanno diritto di esistere se accompagnate da quell’aggettivo.

Anche il protagonista della parabola del Vangelo di questa domenica (Lc 12,13-21) usa lo stesso linguaggio: il mio raccolto, i miei magazzini, i miei beni. Anche lui ha bisogno che il tempo si dilati, non ne intravede la fine se non molto lontana: «Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni: riposati, mangia, bevi e divertiti» (Lc 12,15). Il volto dell’altro, di ogni altra persona è cancellato e la vita diventa tragicamente «la somma delle cose che si possiedono». Questo ricco dimentica che la vita non è nelle sue mani. Nessun uomo, per quanto potente, è padrone della sua vita. L’attrazione del denaro, tuttavia, rischia di svuotale le persone di ogni ideale, di ogni spinta etica. Quando penetra nel cuore questa incontrollata voglia di ricchezza, allora svanisce la solidarietà, l’attenzione agli ultimi, l’interesse per i problemi mondiali, il rispetto delle differenti culture e, di conseguenza, non c’è più alcun spazio per Dio, che è il fondamento di questi valori e la spinta per viverli. Gesù conosce il cuore umano; è là che nasce questa brama insaziabile di accumulare ricchezze (cfr. Mc 7,22). Davvero il cuore «può conoscere la malattia del ripiegamento sull’avere, che impedisce la capacità di donare e di ricevere» (E. Bianchi). Gesù sapeva che «l’avarizia è la radice di tutti i mali» (1Tm 6,10), che è «idolatria» (Col 3,5) perché implica sempre un affidarsi ai beni piuttosto che a Dio.

In altre parole, questa smania di avere impedisce a Dio di regnare sulle nostre vite. Per questo Gesù ha detto: «Non potete servire Dio e la ricchezza» (Lc 16,13) e di fronte al rifiuto di un ricco di rispondere alla sua chiamata ha commentato: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio» (Lc 18,24). Vivere accumulando rimuove un confronto importante che tutti siamo chiamati a fare: è il confronto con la morte, perché solo se abbiamo una ragione per cui vale la pena morire, dare la vita, ne abbiamo anche una per vivere in pienezza.

Infine voglio sottolineare che Gesù con la sua parabola non vuole togliere valore alle cose della terra. L’uomo vive anche del godimento del pane quotidiano e di ogni altra cosa bella che Dio ha creato; ma dovremmo saper cambiare quell’aggettivo possessivo che ci rende schiavi e passare dall’io al noi. Il nostro tesoro sono le persone e non le cose. Il futuro dipende dalle relazioni e non dall’economia.

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