Davvero “rendiamo grazie al Signore nostro Dio”?

2Re 5,14-17;

2Timoteo 2,8-13;

Luca 17,11-19

Siamo più bravi a ringraziare o a domandare? Quanta fatica facciamo da bambini per imparare a dire “grazie”! E invece per chiedere, nessuna. Sì, si impara a dire “per favore” e “grazie”, ma lo si impara come una specie di stratagemma o lasciapassare: “per favore” è il lasciapassare per avere quella certa cosa, “grazie” è lo stratagemma perché, se non lo dici, magari ti riprendono quello che ti hanno appena dato. E allora, dire “per favore” e “grazie” è questione di furbizia più che di vera riconoscenza. La riconoscenza bisogna suscitarla; a dire grazie non per interesse ma solo per amore, ci si educa un po’ alla volta.

Anche con il Signore è così, anche con Dio, che chiamiamo Padre nostro. Miliardi di preghiere salgono ogni giorno dalla terra verso il cielo, ma quante di queste son fatte per dire “grazie”? Io penso che la maggior parte sono tutte di questo tenore: “Signore, dammi questo… dammi quello… dammi quest’altro…”. Penso che siano piuttosto poche quelle della riconoscenza, per dire: “Signore, grazie!”. E ritengo (certo di non sbagliare) che uno tra i motivi per cui certi cristiani non partecipano alla messa della domenica (o lo fanno di rado), sia anche questo: non sentono il bisogno di dire grazie al Signore. E perché mai una tale insensibilità? Perché tra loro e Dio non c’è un vero e proprio legame di amore. Ah, certo, il Signore li ama lo stesso: “anche se noi manchiamo di fede – afferma san Paolo in questa domenica (seconda lettura) – il Signore no: rimane fedele”. Sì, ma loro non se n’accorgono; probabilmente si sono fatti il callo all’amore di Dio.

Lo facevo notare già la scorsa settimana, ma non posso tralasciare di richiamarlo. Pensano di aver diritto a tutto: alla vita, alla salute, al benessere (o meglio, al ben-avere), alla felicità e chissà a quante altre cose; ora, se hai diritti, e solo diritti, che bisogno c’è di dire grazie? Per i doni sì, ma per i diritti nessuno ringrazia nessuno. In tal modo non solo si fa la figura degli ingrati, ma si diventa addirittura sempre più ingordi. Infatti, quando i doni cessano di essere doni e sono percepiti come diritti, non si godono nemmeno più: fin che restano doni, si apprezzano, si godono, si è felici (c’è mai stato un uomo più felice di Francesco d’Assisi?), quando decadono a beni di nostra esclusiva proprietà, allora ci si preoccupa che nessuno ce li porti via, e ci si affanna per averne di più, sempre di più. Questa si chiama ingordigia. Non occorre nemmeno essere credenti per capire quanto sia connaturale alla persona mostrarsi grata e riconoscente soprattutto in certe situazioni o dopo aver vissuto certe esperienze. Non per nulla la prima Lettura di questa Domenica mette in scena un pagano (Naaman, generale del re di Aram, cioè l’attuale Siria), il quale – colpito da lebbra – si reca in Israele dal profeta Eliseo nella speranza di trovare guarigione. Dopo essersi immerso nelle acque del Giordano per sette volte (su ordine del profeta), si ritrova guarito. Vorrebbe esprimere la sua riconoscenza ad Eliseo con doni adeguati, ma costui gli dice chiaramente: “È il Signore che ti ha guarito, mica io! Ringrazia lui!”. A quel punto Naaman fa riempire alcuni sacchi di terra – la terra santa! – per portarli a Damasco nel giardino di casa sua: “Ogni giorno – dice – mi inginocchierò su questa terra e ringrazierò il Signore!”. Ecco, gli ingordi, che pensano di aver diritto a tutto e non ne hanno mai abbastanza, potranno anche sorridere sprezzanti di fronte a un’esperienza come questa; ciò non significa che abbiano ragione. Quel loro sorriso sprezzante non è altro che una reazione d’autodifesa. Sì, sono tanti quelli che dicono al Signore: “Dammi questo… dammi quello…”, ma sono pochi quelli che poi tornano a ringraziarlo. Il Vangelo racconta di 10 lebbrosi guariti da Gesù, dei quali però uno solo torna sui suoi passi a ringraziare (ed è un samaritano, cioè un credente imbastardito, secondo gli ebrei). E gli altri 9? Eh, gli altri 9 erano a festeggiare con gli amici. Ma è interessante la conclusione della vicenda. A quell’unico che dimostra gratitudine, Gesù dice: “Alzati! La tua fede ti ha salvato!”. Quest’affermazione va compresa in tutta la sua portata: non solo era guarito dalla lebbra come gli altri 9, ma lui – tornato a ringraziare – è salvato da Gesù: ecco il vero dono prezioso, di cui la guarigione era stata solo l’anticipo! Chi guarisce, vive per un po’ di anni, ma chi è salvato, non solo vive i suoi anni con più soddisfazione, ma vivrà per sempre. Gli altri 9 si sono accontentati dell’anticipo, ma il dono vero non l’hanno avuto, perché a ringraziare non sono tornati. E noi, quale conclusione possiamo trarre? Quando abbiamo bisogno di qualcosa che ci sta a cuore, sì chiediamola pure al Signore, ma ricordiamoci che i suoi doni più grandi, più preziosi, Lui li fa a chi si ricorda di dirgli “grazie”. Ora, dire grazie nel linguaggio dei primi cristiani suona così: “Eucaristia”. Chi non partecipa a quella celebrazione domenicale del “dire grazie”, si taglia fuori dai doni più belli che Dio ha preparato. Può darsi che non sempre Dio ci dia ciò che gli chiediamo; in tal caso possiamo star certi che egli ha in serbo qualcosa di molto più bello di quello che gli domandiamo. In ogni caso, facciamo ogni tanto l’elenco dei molti doni che riceviamo dal Padre nostro. Questa constatazione ridesterà in noi lo stupore, l’amore, e con l’amore il “grazie” ci verrà spontaneo alle labbra.

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