Elogio dell’incompiutezza

Sigaretta dopo sigaretta, pennellata su pennellata. Per poi cancellare e ricominciare. Opera incompiuta, come tante altre, alla ricerca di una perfezione irraggiungibile. In Final Portrait-L’arte di essere amici, Stanley Tucci (qui al suo quinto film ma anche attore in tanti altri tra cui il recente Il caso Spotlight) mette in scena Alberto Giacometti, l’artista svizzero disordinato quanto geniale, scomparso nel 1966, universalmente noto per le sue sculture filiformi, specchio dell’inconscio, come per i suoi disegni cubisti. Per questo biopic, il regista statunitense ripercorre e prende spunto dal diario di James Lord in cui lo scrittore americano riporta, fin nei particolari, i 18 giorni parigini passati a far da modello a Giacometti per un ritratto, l’ultimo prima della morte di pochi mesi dopo, che gli aveva commissionato. Un lavoro che doveva durare pochi giorni e che si protrasse per oltre due settimane. Comunque incompiuto.

Il set è quasi sempre dentro l’atelier. Solo il tempo di qualche passeggiata e di lunghe soste al bistrot. Un film da camera, o quasi, con pochi personaggi. Nella parte dell’artista il bravo Geoffrey Rush (Shine, Il discorso del re). In quella di James Lord, Armie Hammer (Chiamami col tuo nome del candidato all’Oscar Luca Guadagnino). A far da contorno alla “coppia”, il fratello di Giacometti, Diego, la moglie Annette e l’amante Caroline.

Ne risulta un’opera convenzionale, senza particolari tensioni, suggestioni, sussulti, piatta, a volte noiosa. Quasi che il regista, attenendosi scrupolosamente al diario da cui è tratta, vi abbia trovato rifugio e sicurezza. Senza correre il rischio di derogare, “inventare” qualcosa, uscire dagli schemi, far emergere le inquietudini dell’artista, il senso di incompiutezza e di disordine di una vita vissuta all’insegna di una geniale indefinitezza. In un'intervista pubblicata da Io donna, Stanley Tucci ha dichiarato che l’interesse per Giacometti nasce dal fatto che “fosse un artista tormentato e perfetto. L’idea di un ritratto fatto mille volte mi permetteva di portare lo spettatore fino al punto di rottura”. In un’altra a Repubblica afferma: “Il libro di Lord aveva una struttura specifica. Non il classico biopic che non mi piace. Volevo entrare nello spaccato della vita di Giacometti, nelle sue relazioni delicate, tra moglie e amante, nella sua caotica quotidianità, nei dubbi e nelle pause. Penso di esserci riuscito essendo fedele a Giacometti che era inclassificabile sia dal punto di vista artistico che umano. C’erano molti filmati del suo studio. Lo abbiamo ricostruito a Londra anche perché non avevamo i soldi per girare a Parigi. Quanto alle opere – prosegue il regista-attore Usa – ci siamo rivolti alla sua fondazione. All’inizio erano preoccupati che realizzassimo delle copie poi però ci hanno sostenuto. Abbiamo lavorato con pochi soldi e in pochi giorni”.

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