Etiopia, un conflitto destabilizzante

I campi profughi nella regione del Tigray, in Etiopia. Foto © Vita Trentina

Sembra quasi che le guerre siano scomparse dalla faccia della terra. Almeno così si è indotti a pensare, se si leggono i giornali italiani (meno, in verità, quelli esteri). Da noi i titoli e gran parte delle pagine interne sono dedicate alle vicende della seconda ondata di Covid-19. Perfino le sezioni di cronaca internazionale parlano essenzialmente della pandemia nel mondo. Purtroppo la realtà è molto diversa, come ci dimostra con grande evidenza il duro conflitto in Etiopia.

Improvvisamente all’inizio di novembre sono scoppiate le ostilità fra il governo centrale di Adis Abeba e la provincia più a nord del Tigray. La ragione contingente del conflitto è stata la proibizione del governo federale a tenere le elezioni provinciali a giugno, causa Covid.

Il leader del Tigray, Debretsion Gebremichael, ha invece deciso di farle svolgere a settembre. Il governo centrale le ha allora invalidate e ha accusato le milizie tigrine di avere attaccato una base militare. Sembrerebbero ragioni secondarie e magari infarcite di fake news per dare l’avvio ad un conflitto aperto con bombardamenti e morti da entrambe le parti.

La verità è che si tratta di una guerra di potere tribale fra una fazione rappresentata dal partito del Tigray, il fronte popolare di liberazione (TPLF), e il nuovo presidente dell’Etiopia, Abiy Ahmed, arrivato al potere due anni fa in rappresentanza dell’etnia omoro. Quest’ultima, pur essendo maggioranza nel paese, era stata a lungo marginalizzata, proprio quando a governare l’Etiopia vi erano i tigrini. Ora avviene esattamente il contrario e i tigrini che non hanno accettato di fare parte di un’ampia coalizione di partiti dominata dagli omoro si sono ritirati nella loro provincia del nord. Insomma, siamo alle solite allorquando si esaminano le dinamiche politiche e tribali dell’Africa e il ricorrente esplodere di conflitti. Un vero problema per il futuro dell’Etiopia, paese considerato relativamente stabile e proprio per ciò eletto a sede delle istituzioni dell’Unione Africana, una specie di Unione europea, meno strutturata ma piuttosto importante per il continente africano.

Le conseguenze non riguardano solo il piano interno, come si sforza di farci credere il presidente Abiy, ma anche quello dei paesi limitrofi. A cominciare dal Sudan al nord, proprio sul confine con il Tigray, verso il quale fuggono le persone coinvolte loro malgrado nel conflitto. Il guaio è che il Sudan sopporta già oltre un milione di rifugiati africani da varie zone in conflitto e i rischi di destabilizzazione sono piuttosto concreti, anche perché quel paese (assieme all’Egitto) ha un contenzioso sulla nuova diga sul Nilo Blu voluta proprio da Abiy. Nel Tigray poi sono ammassati da quasi dieci anni almeno 100mila rifugiati eritrei che si sono sottratti al sanguinoso regime del dittatore eritreo Isaias Afewerki e che oggi non sanno dove trovare riparo.

Proprio nei confronti dell’Eritrea ad est sta quindi orientandosi la guerriglia tigrina allo scopo di riaccendere il lunghissimo conflitto fra Eritrea ed Etiopia dopo l’accordo del 2018 raggiunto da Abiy con il dittatore di Asmara, accordo che ha addirittura portato al Nobel per la pace ad Abiy. Concessione che oggi ha il sapore di una beffa. Oltre, quindi, ad una probabile guerriglia interna che dal Tigray si può espandere in altre parti del paese, nasce la preoccupazione che incidenti alle frontiere o all’interno degli stati confinanti si trasformino in fattori di crescente instabilità e incertezza. Va infatti considerato che dopo i lunghi anni al potere ad Adis Abeba, il Tigray è una delle 10 province dell’Etiopia meglio organizzate e oggi può contare su una milizia che gli esperti valutano in 250mila uomini.

Forse si è ancora in tempo per trovare un compromesso, magari che attribuisca al Tigray una maggiore autonomia dallo stato centrale, ma fino ad oggi Abiy ha rifiutato perfino la mediazione dei suoi colleghi dell’Unione africana. Una mossa che non depone a favore di una pacificazione.

L’Unione europea e lo stesso nostro paese, che verso l’Etiopia ha ancora qualcosa da farsi perdonare, non si sono mossi, a parte le solite frasi di circostanza. Eppure da quel paese, dalla sua stabilità e da un reale cammino verso una migliore democrazia passano gli interessi non solo degli africani ma anche di noi europei.

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