Fede: rischio per Dio e per noi

I lettura: Ezechiele 2,2-5;

II lettura: 2Corinzi 12,7-10;

Vangelo: Marco 6,1-6

“Rischio” è una parola molto ricorrente nel vocabolario della vita, perché – con maggiore o minore frequenza – è l’esperienza di tutti. Tutti rischiamo. Non solo nel senso che siamo soggetti a rischi (attraversiamo le strade un’infinità di volte e ogni tanto capita che uno viene travolto), ma anche nel senso che rischiamo proprio di nostra iniziativa: rischiano automobilisti e motociclisti correndo oltre i limiti di velocità consentiti; rischiano quelli che – sul piano finanziario – investono i loro capitali in una direzione o nell’altra (a volte ci guadagnano, a volte ci rimettono); rischiano quelli che si sposano e mettono su famiglia (nessuno parte con garanzie di riuscita).

Ci sarà anche nella Fede il rischio? Si parla infatti di “rischio del credere”, o di fede come “salto nel buio”. Beh, più rischio di così!

Ma con la differenza che qui i primi a rischiare non siamo noi, ma è Dio stesso. Questo di solito lo si ignora, ma le letture di questa domenica lo dicono espressamente: è Dio il primo a rischiare. In tutta la storia della fede – che dura da qualche migliaio di anni – Dio è sempre stato il primo a rischiare. Ezechiele, il profeta della prima lettura, si sente dire da Dio: “Tu va’, parla al mio popolo: ascoltino o non ascoltino, tu parla!”. Quindi Dio l’ha messo in preventivo: la gente può anche voltargli le spalle e chiudergli il cuore. Ci ha creati liberi, del resto; se ci avesse fatti come dei burattini o dei robot, questo rischio non l’avrebbe avuto. In Gesù Cristo l’ha sperimentato aldilà d’ogni immaginazione. In quel paesino – Nazaret – che l’ha visto crescere come uomo e diventare adulto, allorché si presenta per quello che è – Figlio di Dio, Salvatore – ecco che viene rifiutato. Non gli credono. Sono ammirati, perfino contenti che quel loro compaesano si sia fatto strada, che con i suoi prodigi e i suoi discorsi sia ascoltato e seguito da molti in tutta la regione… ma loro non gli credono. Ha sempre svolto il mestiere del carpentiere: come può essere che adesso, di punto in bianco, si riveli come il Salvatore, il Figlio di Dio? Rifiuto, insomma, tanto che lui conclude amaramente: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.

I pescatori del lago, quelli che aveva chiamato al suo seguito, gli avevano creduto. E anche molti tra i poveri e tra gli emarginati, gli avevano dato fiducia. Ma i suoi compaesani, i suoi parenti, no.

Perché la Fede è rischio per Dio anzitutto, e consiste nel presentarsi, parlarci, e non essere creduto. Poi, sempre in fatto di rischio, veniamo noi, che dobbiamo decidere se credergli, se affidargli davvero la nostra vita senza condizioni, oppure no.

Ma la più interessante tra tutte le affermazioni del vangelo è nella conclusione: “Gesù, al suo paese, non potè operare nessun prodigio… e si meravigliava della loro incredulità”.

Mi pare che in queste parole c’è la descrizione più sobria e più affascinante di che cos’è la Fede. E’ l’opportunità che diamo a Dio, a Gesù, di entrare nella nostra vita e fare qualcosa, tanto che se gliela rifiutiamo è come se gli chiudessimo la porta, e Dio – pur con tutta la sua onnipotenza – non può entrare. La sua onnipotenza ha un limite infatti: la nostra incredulità può bloccarla e farla diventare impotenza.

È facile, del resto, lasciarsi contagiare dall’incredulità, più facile di quanto si pensi. Infatti non esiste solo l’incredulità dei miscredenti, o degli atei, vi è anche quella più camuffata dei credenti che – alla prova dei fatti – sono tali solo di nome. Forse pure noi a volte ci illudiamo di credere in Gesù Cristo, più che credere effettivamente.

Non meravigliamoci della gente di Nazaret che vedeva nel compaesano Gesù solo il falegname… Non è facile, non viene da sé credere in un Dio che è di casa dentro la nostra vita di tutti i giorni, misteriosamente presente nelle relazioni che intratteniamo, nei volti delle persone con le quali abbiamo a che fare. Non è facile credere in lui, senza cadere nella presunzione che perciò stesso lui debba risolvere tutti i nostri problemi, guarirci da tutte le malattie, far rigar dritte anzichè storte tutte le nostre vicende personali o familiari. Luca, nel riferire questo stesso fatto, racconta che la gente – delusa dal rifiuto di Gesù a far da distributore di miracoli – reagì addirittura con violenza. No, non è esperienza facile la fede: credere è fidarsi anche se i problemi restano irrisolti, anche se le cose storte continuano ad andar storte. Come per Paolo, l’apostolo, che prega più volte Dio di liberarlo da una spina nella carne (forse una malattia cronica fastidiosa, o chissà cos’altro); e Dio gli risponde: “No, tientela… Questa esperienza ti fa toccare con mano la tua debolezza, altrimenti tu ti monteresti la testa. La mia potenza opera meglio attraverso la tua debolezza che tramite la tua prestanza”. Al che, l’apostolo conclude: “Va bene, Signore, me la tengo. Vorrà dire che solo nella mia debolezza sarò davvero forte: perché mi fiderò di te, e tu potrai entrare nella mia vita e agire con tutta la tua potenza”. Sì, è povera la nostra Fede, sarà sempre fragile, sempre a rischio. Ma è esattamente in questa fragilità, in questa debolezza, che Dio si farà davvero presente e operoso. Aldilà di tutte le nostre previsioni e constatazioni.

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