Così scriveva nel 1673 lo storico Michele Angelo Mariani: “In Sardagna vengono assai cavoli detti capussi, e castagne in copia, del resto il luogo si può dir, come un paese di fauni”. La vocazione castanicola del territorio sardagnolo affonda le radici nella storia.
Ancora oggi, passeggiando sui sentieri a monte dell’abitato costruito sul dosso, ovvero “l’Alto sasso” citato da Mariani, si possono scorgere piante secolari di altezza e diametro del tronco imponenti. Alcuni di essi hanno storie particolari, come il Castegnar della Lasta o quello che nel gennaio del 1949 fu suo malgrado protagonista di un tragico incidente stradale, in quanto fermò il precipitare a valle di una corriera uscita di strada.
La castanicoltura, inserita anche oggi negli usi civici della comunità, permetteva non solo il raccolto dei frutti, ma anche del fogliame caduto e dell’erica, materiale con il quale preparare la lettiera degli animali in stalla. Ai diritti faceva da contraltare l’obbligo di potatura delle piante e la pulizia del secco dal terreno sottostante, pulizia necessaria per una vita sana e produttiva dei castagni.
Piante selvatiche e piante “calme”, cioè innestate, producevano marroni di alta qualità, castagne rossare e una varietà il cui nome può trarre in inganno: le cosiddette “calmamule”. I pazienti quadrupedi non avevano nulla a che fare con questi frutti, perché era detto “calma mula” un innesto “mulo”, cioè malriuscito. Le carghe delle preziose granelle, le castagne, contribuivano in larga misura all’economia di tutto il paese.
Visitare il castagneto storico di Sardagna è un obbligo, bello e buono.