Il volto ebraico della croce

Se La grande bellezza acclamata dagli Oscar vi ha lasciati turbati e insoddisfatti, c'è un film che non potete perdere, perché la bellezza lo attraversa in ogni immagine e suono. Una bellezza potente e struggente, che al tempo stesso è trattenuta e negata. Raggelata, si potrebbe dire, come l'inverno polacco d'inizio anni Sessanta in cui la storia è ambientata; come la giovane protagonista che dà il titolo al film, Ida.

Ida, anzi Anna, a inizio storia, è una novizia di un convento sperduto in qualche parte della campagna polacca, desolato come l'ambiente che lo circonda. Lì la ragazza ha trascorso la sua vita di orfana e ora, alla vigilia di Natale del 1962, si prepara a prendere i voti. Ma, prima, la madre superiora la invita con fermezza a conoscere l'unica zia che le è rimasta, e che ha sempre rifiutato di interessarsi della nipote.

È solo la prima delle notizie sconvolgenti che Ida incontrerà sulla sua strada, la seconda gliela metterà davanti la zia, quando la vede, dopo un momento di turbamento, con il sarcasmo amaro che la connota: «una suora ebrea…»

Il viaggio di Ida si trasforma nella ricerca di tutto ciò che non ha mai saputo: chi sono i genitori, da dove venivano, dove sono morti, per mano di chi, dove sono sepolti. Tutto ciò che la zia, che ha fatto carriera nel partito comunista, ha sempre evitato accuratamente di indagare. Entrata nella resistenza ebraica e scampata allo sterminio, essa ha cercato nel potere una rivalsa, meritandosi il nome di «Wanda la sanguinaria», nel Tribunale del Popolo, e nei piaceri della vita un mezzo per dimenticare il dolore. Ora, però, anche per lei è arrivato il momento di guardare in faccia quel dolore, andando a disseppellire coi morti il male, radicale e insieme banale, che si è abbattuto sugli ebrei per mano nazista, ma anche cristiana…

In realtà serve a poco ed è perfino fuorviante raccontare un film che vive nel rispecchiarsi di due donne che sono le facce di una stessa medaglia, il candore di Ida che si ritrae dalla vita aggrappandosi all'immagine di Gesù Redentore, e la disillusione di Wanda che la vita l'ha vissuta senza riuscire a colmare il vuoto interiore. Un film fatto di sguardi e di silenzi che parlano più delle parole; di sentimenti non detti ma evidenti, dove un bianco e nero straordinario sottrae e al tempo stesso comunica i colori; l'inquadratura lavora sui dettagli dei volti e sul vuoto degli spazi, e alla musica, il jazz innanzitutto, è affidato il compito di esprimere ciò che l'anima desidera nel profondo e sembra destinata a non raggiungere.

La scelta finale di Ida può essere letta in negativo, come negazione della vita. Oppure come icona di un mistero profondo, da riscoprire e contemplare: il volto ebraico della «via crucis»; la bellezza che permane nonostante la croce, attraverso la croce.

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