“In principio la compassione”

Ger 23,1-6;

Salmo 22 (23);

Ef 2,13-18;

Mc 6,30-34

«Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo», in questo modo non solo inizia la nostra prima lettura tratta dal profeta Geremia, ma anche si delineano i toni caratterizzanti la liturgia della Parola della XVI domenica. Ammonizione e sofferenza. Rimprovero e preoccupazione. Infatti, in quel «Guai ai pastori» dobbiamo riconoscere da una parte indignazione, disapprovazione e insofferenza e dall’altra parte preoccupazione, apprensione e turbamento. Proprio questi forti sentimenti attraversano tutte le tre letture di questa domenica. Nella profezia di Geremia quando ci viene presentato un gregge disperso e senza meta, abbandonato ai razziatori e a re incapaci Dio, preso da compassione, interviene e promette di inviare un suo re saggio e giusto. Nella lettera agli Efesini si indica Gesù l’artefice della riunione dei due gruppi religiosi del tempo, i pagani (“i lontani”) e i giudei (“i vicini”) che un «muro di separazione» proprio all’interno del Tempio divideva. Con la donazione della sua vita, Gesù stesso sarà la pace fra questi due popoli e l’eliminazione di ogni divisione. Infine, anche nel Vangelo di fronte alla folla che si presenta come «un gregge senza pastore», ansiosa, senza guida Gesù si commuove e annuncia una parola di libertà, di vita e di senso. In ognuna di queste letture ritroviamo sia un contesto di dispersione, di confusione, di smarrimento e di divisione sia una Parola offerta gratuitamente capace di far alzare lo sguardo verso orizzonti di speranza, di unità, di armonia e di pace. Vi è, dunque, in quel «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo» una supplica accorata che manifesta il volto di un Dio incapace di sopportare ancora una volta una situazione di ingiustizia e di disumanità. In quel «Guai» riconosciamo il grido di sofferenza del nostro Dio che non vuole guardare da un’altra parte quando vi è ingiustizia, sopraffazione e prepotenza e che non può essere indifferente alla sofferenza del debole, del povero e dell’indifeso. Per questo Dio alza la voce: «non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere» e promette la venuta di un pastore dal progetto chiaro e giusto, dalla mano ferma come quella di Davide. Un pastore che avrà come unica preoccupazione il benessere e la vita del suo popolo perché il suo nome sarà «Signore – nostra – giustizia». Al tempo di Geremia, il termine «giustizia» conserva la dimensione sociale di rispetto dei più poveri, di difesa dei deboli, di equità nelle sentenze dei tribunali, di equilibrio sociale. Soprattutto oggi occorre sostare su questa pagina profetica ascoltandola nel profondo di noi stessi per imparare quell’indignazione che dà voce a coloro che non hanno voce e che ci dona l’antidoto ad ogni forma pericolosa di indifferenza. Abbiamo bisogno di svegliare le nostre coscienze per disobbedire alla «mentalità comune» che confonde l’umanità con l’individualismo non prendendo sul serio la sofferenza di coloro che «fuggono da una morte certa verso una morte possibile» (Alganesh Fessah). Quel pastore, che nella prima lettura riceve il nome di «germoglio giusto», nel Vangelo prende il volto e soprattutto il cuore appassionato di Gesù che si accorge del bisogno dei suoi discepoli e se ne prende cura, e che, commuovendosi alla vista della folla, si mette a insegnare una parola di vita. In continuità con il vangelo di domenica scorsa, ritroviamo il gruppo dei discepoli che, dopo la loro prima missione a due a due, si riunisce attorno a Gesù per mettere insieme i successi condivisi e le opposizioni incontrate. Attorno alla persona viva di Gesù che si prende cura di loro ascoltandoli con attenzione e invitandoli a un momento di calma in un luogo solitario, i discepoli ritrovano se stessi. Questa attenzione di Gesù verso i suoi discepoli ha il sapore della tenerezza materna che si accorge dell’altro fino a perdere tempo ed energie per lui. Quel riunirsi attorno a Gesù sembra divenire di per sé già terapeutico per i discepoli: si ricordano quale è la fonte della loro pace. Nonostante gli affanni, le preoccupazioni e i contrasti occorre rimanere ancorati al Signore. È sorprendente come in una manciata di versetti cambi la scena e Gesù e i Dodici siano costretti a cambiare il loro progetto di «riposo» (v. 32). Molte persone, infatti, dopo essersi accorte della loro “fuga” in barca, in un baleno corrono insieme a piedi e precedono il gruppetto dei neo – missionari insieme al loro maestro. Ora, però, è Gesù il protagonista della scena. Solo di lui si dice che scende dalla barca e vede immediatamente la gente numerosa accalcata. Non può non vedere. Non può e non vuole girarsi dall’altra parte. Come il pastore indignato e sofferente del profeta Geremia, anche qui Gesù «ebbe compassione di loro». Un profondo turbamento scuote le viscere di Gesù. L’attenzione è sullo sguardo di Gesù che riflette un cuore appassionato «sempre in uscita» perché si lascia toccare dalla vita dell’altro. Non ha paura. Si potrebbe dire che in principio c’è il patire con l’altro, la partecipazione, la grazia. Non si lascia la folla sola. Non si lascia gente in mare. Non si fa retromarcia. È la legge dell’umanità. La legge di Dio – pastore che vede e si prende cura. La gente ha bisogno non di segni potenti che appaghino curiosità ambigue, ma di una parola diversa, detta con amore e comprensione, capace di orientare con sapienza. Signore, insegnaci ad avere il tuo sguardo che si accorge dell’altro. Signore, insegnaci a far vibrare le nostre viscere quando la vita dell’altro vien meno. Signore, non stancarti di essere il nostro pastore.

a cura della Comunità Monastica di Pian del Levro

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