In quell’abbazia il bene e il male del mondo

La fiction si attiene alla felice intuizione di Umberto Eco di attribuire al racconto una struttura dialogica

Oltre 6 milioni di spettatori hanno garantito il successo della fiction Il nome della rosa prodotta da Palomar, Raifiction e TeleMunchen con la regia di G. Battiato. La fiction si attiene alla felice intuizione di Umberto Eco di attribuire al racconto una struttura dialogica, aperta all'azione con le altre due unità aristoteliche di luogo (l’abbazia), di tempo (sette giorni divisi in ore canoniche) e alle emozioni del pubblico, suscitate dall’immaginaria abbazia più grande del mondo, sita nell’Italia settentrionale. Testimone di singolari tragici eventi, come segretario del francescano spirituale Guglielmo di Baskerville (John Turturro) li rivive e racconta da anziano Adso. L’occasione per quell’esperienza era stato l’incontro della Legazione del papa avignonese Giovanni XXII e dei francescani a lui fedeli e di quella dei francescani spirituali sostenitori con i benedettini dell’imperatore Ludovico il Bavaro per tentare una conciliazione sul tema della povertà di Gesù e degli apostoli. La presenza dell’inquisitore domenicano Bernardo Gui era di natura politica e diplomatica a favore del primato e del potere del pontefice rispetto a quello dell’imperatore, sebbene riguardasse la lotta contro le numerose eresie.

Il titolo “Il nome della rosa” deriva dal poema allegorico in francese antico “Il romanzo della rosa” (XIII sec., inizio XIV) di iniziazione all’amor cortese del protagonista Guglielmo, che presenta analogie con gli ostacoli e le prove dolorose, presenti nel romanzo di Eco. La fantasia del finis Africae ricorda l’indicazione “hic sunt leones” nelle carte geografiche antiche per la parte di essa inesplorata.

Eco si dichiarò ispirato anche dall’autore di romanzi polizieschi Conan Doyle e dal titolo di un suo romanzo “Il mastino di Baskerville” derivò il nome di Guglielmo, mentre Adso ricorda Watson.

Un’operazione ludica e ironica, che interessa anche altri nomi. Quanto al II libro della Poetica di Aristotele, che il fanatico Jorge, castigliano di Burgos avrebbe mangiato e bruciato e quindi scomparso, la tesi più accreditata fra gli studiosi è che il filosofo abbia scritto solo il I libro sulle nobili arti dell’epica e della tragedia, pur accennando a un livello alto del comico e a uno basso nel buffonesco.

Trasporre un romanzo saggistico disseminato di digressioni nelle potenzialità del linguaggio filmico significava privilegiare la valenza espressiva dei ritratti dei protagonisti, le immagini dei paesaggi sospese fra stupore e “gaiezza, attraversate da vibrazioni luminose, che colorano i volti e le cose o avvolti in nebbie tenebrose, come ombre che gravano sull’anima, coperti da un manto di neve, che rivela o nasconde le tracce di un cammino verso la verità”. Un rilievo assumono le figure femminili: la ragazza povera amata da Adso, destinata alla tortura e al rogo come strega, tuttavia un’invenzione spettacolare perché Bernardo Gui (Rupert Everett) non processò mai una donna.

La narrazione alterna a sequenze corali e solenni la coscienza di un pericolo incombente con punte drammatiche e patetiche nel processo al cellario ex dolciniano e lo psicodramma dell’incontro nel finis Africae di Adso e Guglielmo con Jorge, autore di quattro delitti per salvare la sapienza cristiana dall’insidia del riso. La tumultuosa disorientata tragedia dell’incendio dell’Abbazia ne svela la fragilità della struttura lignea su cui si elevava.

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