Italiani in concorso a Venezia, più luci che ombre

Sorrentino ha portato a Venezia un film essenziale e sofferto

La partecipazione italiana alla 78esima Mostra del cinema di Venezia conclusasi l’11 settembre scorso ha riservato più luci che ombre. Per quanto dei cinque film in concorso alcuni abbiano ottenuto meno di quanto ci si aspettasse e altri non siano stati per nulla considerati dalla giuria presieduta dal coreano Bong Joon Ho. Può succedere quando il livello medio delle “pellicole” presentate è ben maggiore di altre edizioni della manifestazione lagunare.

Tra pubblico e addetti ai lavori “È stata la mano di Dio” (in sala dal 24 novembre e su Netflix dal 15 dicembre) dell’Oscar Paolo Sorrentino era dato per probabile vincitore del Leone d’oro. Si è dovuto “accontentare” del Gran premio della giuria e del premio Marcello Mastroianni per l’attore emergente al giovane protagonista Filippo Scotti. Come già riportato (nel numero di Vita Trentina del 12 settembre) quest’ultimo è senz’altro il film più personale e sobrio del regista de “La grande bellezza”. Di ispirazione autobiografica – l’adolescenza, la perdita dei genitori, Napoli ai tempi del mito Maradona – “È stata la mano di Dio” è essenziale e sofferto. Un cambio di passo per il regista napoletano che da adolescente si trasferì a Roma per provare, riuscendovi, ad entrare nel magico mondo del cinema.

Ancora Napoli in “Qui rido io” (in queste settimane in sala) di Mario Martone (“Morte di un matematico napoletano”, “Il giovane favoloso”, “Noi credevamo” tra i suoi lavori). Qui al centro della scena è il teatrante della Belle Epoque Eduardo Scarpetta padre dei tre De Filippo (avuti dall’amante) interpretato da un monumentale Toni Servillo già protagonista con Sorrentino nella parte di suo padre. Sinceramente incomprensibile lasciar fuori dal palmarès un’opera che, probabilmente, è la migliore e più riuscita di Martone per capacità di trattamento delle psicologie dei personaggi in un quadro di grande coralità ed espressività.

Tra chi ha visto “Freaks Out” (dal 28 ottobre nei cinema) di Gabriele Mainetti (“Lo chiamavano Jeeg Robot”) il refrain era che “non sembrasse neanche un film italiano” da tanto lussureggiante, complessa, ironica, “colorata”, ricca di citazioni fosse la messa in scena del regista romano. Tra “alto” e “basso” il circo di Israel “recita” la propria povera vita, segnata da una grande solidarietà, nella Roma del 1943 occupata dai nazisti vivendo esperienze drammatiche ricomposte da un happy end non di maniera. “Questo film – commenta il regista romano – nasce da una sfida (riuscita, ndr): ambientare sullo sfondo della pagina più cupa del Novecento un film che fosse insieme un racconto d’avventura, un romanzo di formazione e una riflessione sulla diversità”.

Nonostante la presenza di Elio Germano, resta inconcludente “America Latina” (a novembre nei cinema) dei fratelli D’Innocenzo (quelli di “Favolacce”) tanto osannati quanto prigionieri di un thriller dalle sfumature psicanalitiche che risulta, in quanto a “materia”, ben al di sopra delle loro possibilità narrative e che sfugge di mano rivelando anche una certa supponenza autoriale.

Che dire poi di Michelangelo Frammartino e del suo “Il buco”, viaggio speleologico nell’abisso del Bifurto, in Calabria? In parecchi si sono chiesti cosa ci facesse in concorso un’opera del genere più consona, forse, ad altri festival. Di un paio di italiani, anzi, di italiane, va detto, nelle sezioni Orizzonti e Orizzonti Extra. Delude “Il paradiso del pavone” di Laura Bispuri che aveva dato ben altra prova di sé con “Vergine giurata”. Il riferimento è a “La famiglia” ma siamo ben lontani dal capolavoro di Ettore Scola. “La ragazza ha volato” di Wilma Labate (“La mia generazione”, “Signorina Effe”, “Arrivederci Saigon”), ambientato a Trieste, affronta il tema dello stupro e delle conseguenze che, qualunque decisione possa essere presa dalla vittima (la brava Alma Noce), condizionerà tutta la vita. Il “tocco” della regista si sente.

Affrontare un tale dolore, anche in maniera insistita, è materia incandescente che Wilma Labate governa con sensibilità (anche cruda), e capacità, non nascondendo nulla grazie anche ad un cast attento alle tante sfumature, ai detti e, soprattutto, ai non detti.

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