La calcolatrice al posto del cuore

I lettura: Isaia 55,6-9;

II lettura: Filippesi 1,20c-24.27a;

Vangelo: Matteo 20,1-16

“Io lavoro per te, quindi ho diritto che tu mi paghi. Così come tu – che mi paghi – hai diritto che io lavori per te”. Criterio di tutto rispetto, sia chiaro: se tutti i dipendenti e tutti i datori di lavoro si attenessero con scrupolo a questo criterio, sarebbe già molto… Ma siamo proprio sicuri che questo sia il massimo per far andar bene le cose a questo mondo? E poi, chi ha mai detto che Dio debba sottostare ai nostri criteri? E se ne avesse di migliori? Già avrebbero dovuto saperlo i farisei del tempo di Gesù, perché erano nella Bibbia queste parole di Dio: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri… le vostre vie non sono le mie vie…”. Dio è giusto, ma proprio perché è Dio, è anche molto più che giusto: è generoso, è longanime, è misericordioso.

Chi pensasse: “Io mi comporto bene, quindi il Signore deve ricompensarmi”, ragiona da ragioniere, da contabile, più che da cristiano. E se qualcuno, per una cattiva educazione ricevuta, non fosse in grado di comportarsi bene, forse che Dio dovrebbe condannarlo?

Mi riferisco alla parabola della prossima domenica. Dio è giusto, certamente, tant’è vero che pattuisce con gli operai della prima ora un denaro (era la paga giornaliera di quel tempo) e alla fine della giornata glielo dà. Se giustizia è dare a ciascuno ciò che si è pattuito, allora Dio è giusto. Sì, ma egli vuol anche essere generoso verso gli ultimi, oltre che giusto con i primi: ecco ciò che supera l’aridità, il grigiore della giustizia di questo mondo.

Alcuni non accettano che Dio si comporti così. Scribi e farisei sono i primi della fila in tal senso: quanto ad opere buone e a rettitudine morale pensavano di accampare molti diritti davanti a Dio, ma soprattutto non riuscivano ad accettare che gente vissuta "senza Dio e senza morale" per tutta la vita, potesse trovare alla fine qualche attenzione presso l'Eterno. “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. “Amico, non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Chi pensa a un Dio soltanto giusto, non può che essere in disaccordo con tale suo comportamento. Infatti, gli operai della prima ora non si lamentano affatto per essere stati trattati ingiustamente, ma perché il padrone, nella sua generosità, ha voluto dare un denaro anche a quelli che hanno lavorato solo un’ora. In altre parole: vorrebbero un padrone soltanto giusto; non accettano, non sopportano che sia anche generoso, misericordioso.

Ovviamente non sono i rapporti tra datori di lavoro e operai quelli che ha di mira Gesù: sono le nostre relazioni con Dio. Ci sono infatti credenti, cristiani, che al posto del cuore hanno una… calcolatrice; e quando si tratta di Dio, amano sentir parlare di giustizia, più che di generosità e di misericordia. Oppure, sì: accettano che Dio sia misericordioso e generoso, ma solo verso di loro, non verso gli altri (soprattutto se questi altri sono persone di malaffare o veri e propri delinquenti che si ravvedono unicamente all’ultimo tornante della vita…). E qual è il motivo di un tale atteggiamento? La distanza, la lontananza da Dio. Non basta calcare le soglie delle chiese per superarla. Ricordate la parabola del “padre misericordioso”? A differenza del figlio prodigo, il maggiore non aveva mai abbandonato suo padre, non si era mai allontanato da casa, ma neanche gli era mai stato veramente vicino, cuore a cuore! Ecco, appunto: aveva una calcolatrice al posto del cuore.

San Paolo – in questa prossima domenica – lo presenta con il linguaggio caldo della testimonianza l'atteggiamento adeguato: “Per me il vivere è Cristo”. Non è solo questione di una crocetta al collo, o di un'ostia (se pure consacrata) presa al volo di tanto in tanto. “Cristo – per me – è il vivere”. Nemmeno un giorno posso trascorrere senza pensare a lui. Non c’è situazione, decisione, impegno, in cui non mi tornino alla mente le sue parole e io non mi lasci illuminare da lui. “Per me il vivere è Cristo”. È un'opportunità che ci viene offerta e tocca noi ora fare la nostra mossa; lui la sua l'ha già fatta, è da un pezzo che aspetta. Allora non ci sarà più niente che ci farà veramente paura: neanche la morte. Perché se “per me il vivere è Cristo – come afferma Paolo – anche il morire allora è un guadagno”: sì, perché Cristo è vivo in pienezza oltre i limiti della morte, ed è quella sua vita che io condivido fin d'ora: come potrebbe finire con la mia esistenza biologica? Se è vero che Cristo diventa il mio vivere, io potrò davvero essere suo testimone: i miei gesti, i miei comportamenti, tutto in me lo lascerà trasparire. L'esperienza di Paolo è l'opportunità riservata a ogni discepolo: “Cristo sarà davvero glorificato nel mio corpo sia che io viva, sia che io muoia”. Allora – ma soltanto allora – capirò qualcosa di Dio: crederò sì nella sua giustizia, ma amerò soprattutto la sua generosità, la sua misericordia.

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