La casa di Sara. Ecco “Herself – La Vita che verrà”

Si intitola Herself – La Vita che verrà, nell’edizione italiana – è il terzo lavoro cinematografico di Phyllida Lloyd, eclettica e talentuosa regista britannica, classe 1957, attiva soprattutto in teatro, che il grande pubblico ha conosciuto grazie alla trasposizione filmica del musical Mamma mia (2008) interpretato da una sorprendente Meryl Streep. All’effervescente ritratto di donna emancipata in stile anni ’70 denotato e connotato dalle canzoni degli Abba, è seguito il ritratto bifronte di Margaret Tatcher, potente e indiscussa Signora degli Anni ‘80 (The Iron Lady, 2011) che a Meryl Streep portò il secondo Oscar della carriera. Il nuovo Millennio vede invece al centro della storia una donna comune, vittima di un marito violento. Una delle tante, troppe, che la cronaca porta alla ribalta un giorno sì e l’altro pure, e non solo in Italia evidentemente.

Lei vive in Irlanda, si chiama Sandra Kelly, ha circa trent’anni, due figlie piccole e un marito falegname che la picchia ferocemente per futili motivi. Sandra è vulnerabile, ma tuttavia non debole. È e rimane presente a se stessa. Trova il coraggio di abbandonare compagno e tetto coniugale per cercare insieme alle due bambine una vita degna di questo nome e di se stessa. Herself, appunto.

Disperata quanto basta, ma anche determinata a procurare una casa a sé e alle figlie, dovesse costruirla con le sue mani, visto lo Stato Sociale sempre più debole, lì come qui.

Nel nuovo racconto Phyllida Lloyd sceglie il registro drammatico e il tema sociale di attualità, ma non scorda la musica – affida alle canzoni il vissuto emotivo di questa madre coraggio – e porta l’attenzione più che sulla violenza sulla rete di prossimità fatta dalle persone più disparate che circondano Sandra e la sostengono nel suo sforzo eroico. Donne per lo più, ma non solo. Persone che si danno reciprocamente e concretamente una mano secondo l’antica usanza del meitheal irlandese. Problemi e ambivalenze non vengono eliminati, così come l’inadeguatezza delle istituzioni a difendere la madre e ancor più le bambine dalla violenza psicologica del padre, o da colpi di coda che potrebbero stroncare definitivamente. Invece si possono guardare in faccia e denunciare e ricominciare daccapo. Grazie a queste presenze discrete e al retto sentire di sé.

Un bel ritratto di umanità e di resilienza affidato in particolare al volto luminoso di Clare Dunne che è anche l’autrice del soggetto e della sceneggiatura. Un racconto che infonde speranza e coraggio in tempi tristi e carichi di violenza.

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